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MEDEA LA “BARBARA”, TRAGICA
EROINA PROTOFEMMINISTA DELLA CLASSICITA’
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Dramma
dell’identità e dell’alterità (e quindi dell’inclusione e
dell’esclusione), dei sentimenti traditi e delle incontrollate
passioni, della condizione femminile nell’antichità e – per
confronto – nella contemporaneità. E’ questa la Medea di
Euripide, tragedia scritta nel V secolo avanti Cristo, eppure –
come tutte le altre opere euripidee – di una sconcertante
attualità per l’intramontabilità delle tematiche trattate e per
l’odierna pregnanza delle problematiche (spesso ancora
irrisolte) sollevate.
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Storia esemplare – quella narrata
da Euripide – perché ampiamente indicativa, innanzitutto, delle
difficoltà legate ai sempiterni processi di integrazione in
terra straniera, e in quanto tale, al di là di qualsivoglia
forzatura interpretativa del testo drammaturgico, del tutto in
linea con le travagliate contingenze legate all’immigrazione
(più o meno clandestina) e all’incontro-scontro fra differenti
modelli culturali e di civiltà.
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Medea, infatti, è assai più che
una semplice straniera: non “xena” (cioè di un altro “paese”,
però riconducibile in qualche modo all’area ellenica), ma
addirittura “barbara” (ovvero d’una terra di lingua e costumi
inaccettabilmente alieni), e quindi non considerabile come una
propria “pari” (condividente una comune identità), bensì
assolutamente estranea ai propri modelli culturali e subalterna
in termini di livello di civiltà (e in quanto tale paradigma
d’una irriducibile alterità di cui profondamente diffidare).
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La maga della Colchide, che per
amore del greco Giasone ha tradito la sua stessa famiglia e si è
aggregata agli Argonauti (sì da consentir loro di conquistare
l’agognato vello d’oro), giunta in Ellade, si trova ben presto
ad affrontare le stranianti meccaniche di chi è oggetto d’una
feroce e inappellabile esclusione, vivendo sulla propria pelle
un autentico processo di allontanamento e di distacco dagli
affetti più cari. Dopo aver dato due figli a Giasone, infatti,
viene da questi ripudiata e abbandonata in favore della figlia
di Creonte, re di Corinto, ritrovandosi così in una terra non
più accogliente, spinta all’esilio e per di più impossibilitata
al ritorno alla patria avita.
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Barbara e donna, relegata dunque
in una doppia condizione di minorità, Medea incarna il “topos”
immortale di chi è vittima di modelli socio-culturali
estremamente rigidi e conservatori, decisamente poco inclini e
permeabili alle novità, soprattutto se fisicamente rappresentate
da individui provenienti da contesti lontani ed estranei al
proprio mondo geografico e mentale.
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L’ostilità al “diverso” della
Grecia classica (già di suo ferocemente misogina e refrattaria
alle contaminazioni originate dall’esterno), nel dramma
euripideo si fa per tanto metafora eterna d’uno stato delle cose
tendente a riprodursi puntualmente in qualsiasi spazio e tempo
si ripresentino gli stessi eventi o situazioni.
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La duplice subalternità cui è
costretta la protagonista fa sì che l’inatteso tradimento degli
affetti e l’allontanamento verso una vita raminga da esiliata,
poiché ritenuti compatibili con la salvaguardia della “purezza
della grecità”, vengano presentati da Giasone e da Creonte come
semplici (e in fondo “accettabili”) “inconvenienti”, del tutto
funzionali al mantenimento degli assetti costitutivi dell’intero
corpus sociale. Ma proprio la barbarie (e quindi l’irregolarità
e la difformità dei modelli di pensiero e dei conseguenti
atteggiamenti) di cui Medea è portatrice, insieme ad una
passionalità diretta e non mediata da alcuna “atarassia” o
“apatia”, è lo strumento concreto di quell’infrazione della
norma e di quell’eversione del sistema, fattivamente in grado di
consentire l’irruzione (seppur violenta) del nuovo nei perimetri
d’una stantia stabilità.
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E’ qui che affiora pienamente il
carattere protofemminista dell’eroina euripidea: proprio in quel
finale tragico ed efferato che vede Medea farsi vindice dei
torti subiti attraverso l’uccisione della rivale e
l’infanticidio dei suoi figli. In questa cruenta rivendicazione
dei diritti (di donna, di madre e di cittadina), negati e
cancellati in nome dell’interesse personale (da Giasone) e della
ragion di stato (da Creonte), risiede dunque la vis innovativa
del personaggio euripideo, non a caso prototipo efficace d’un
modello di donna volitivo e tutt’altro che passivo e
acquiescente di fronte ai dettami del potere patriarcale.
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Interpretato da Elisabetta Pozzi
(Medea) e da Maurizio Donadoni (Giasone), con la regia di
Krystof Zanussi, il capolavoro di Euripide, attualmente visibile
al teatro greco di Siracusa, si presenta in una resa vagamente
altalenante, alternando fasi connotate da un tono fin troppo
dimesso e colloquiale con più intense e coinvolgenti impennate
di pregnante “calor” drammaturgico. Un vizio di forma (che è
anche di sostanza), da cui deriva un certo allentamento della
tensione emozionale per gran parte della recita, soltanto
parzialmente riscattato dal più filologico e classico crescendo
di passione del finale.
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Interessante, nel suo studiato
minimalismo la scenografia dei Fuksas (padre e figlia), poiché –
pur nel suo riecheggiare architetture di tendenza – riesce ad
evocare e simboleggiare compiutamente (con la sua ampia
superficie di metallo speculare e con la distribuzione sul
palcoscenico delle lettere dell’alfabeto greco) lo spirito dei
tempi, riverberandolo – concretamente – sulla stretta
attualità.
Maggio 2009
Salvo Ferlito
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ERACLE di
Euripide, Siracusa teatro greco, mercoledì 20, venerdì 22 e domenica
24 giugno 2008
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<<Sei un dio idiota oppure sei
un dio ingiusto?>> Basterebbe quest’unica frase, pronunciata
con veemente disincanto dall’impeccabile Ugo Pagliai nei panni
di Anfitrione (padre di Eracle), per cogliere a pieno il senso
profondo dell’Eracle di Euripide, e con esso quello dell’intera
drammaturgia del tragediografo ateniese.
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Una drammaturgia moderna e di
assoluta attualità – ben più di quella degli altri due grandi
tragediografi, Eschilo e Sofocle –, proprio per quell’atteggiamento
di dissacrante sfiducia nei confronti degli dei che la permea
intimamente, facendola avvertire come assolutamente in linea con
la nostra sensibilità contemporanea di uomini secolarizzati e
poco inclini a forme di fede cieca e superstiziosamente
credulona.
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Gli dei di Euripide – in quest’Eracle
in scena al teatro greco di Siracusa fino al 24 giugno, come del
resto nelle altre sue tragedie – appaiono infatti del tutto
insensibili ai dolori e alle preghiere umane, o addirittura
talmente capricciosi e vendicativi da giungere a forme di
persecuzione incredibilmente ottuse ed ostinate, in un’assoluta
estraneità a quei valori di misericordia e nobiltà che
dovrebbero invece essere di effettiva pertinenza del divino.
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In una Tebe resa cupa dalla
tirannide di Lico – l’usurpatore che ha preso il potere
approfittando dell’assenza di Eracle, sceso nel frattempo nell’Ade
ad affrontare la sua ennesima fatica –, i familiari del forzuto
eroe sono sul punto d’essere uccisi per volere proprio del
feroce tiranno, desideroso di far piazza pulita d’ogni possibile
ostacolo che si opponga al fraudolento consolidamento dell’agognatissimo
potere. A nulla valgono le ripetute invocazioni di Anfitrione,
il quale – non senza un tono sfiduciato e disilluso, spesso ben
oltre il limite dell’invettiva – chiede a Zeus (padre “naturale”
di Eracle) un intervento “provvidenziale” che possa infine
ripristinare il giusto corso delle cose, contrastando i
criminali e nefasti intenti del violento e vigliacco dittatore.
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Tutto appare dunque in mano agli
imperscrutabili voleri del fato – <<nessuno potrà mai
sovvertire ciò che è inevitabile>> è una delle amare e
pertinenti considerazioni proferite da Anfitrione – e
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destinato pertanto a precipitare
da un momento all’altro, senza che alcuna speranza venga
alimentata da un benché minimo segno degli dei; tutto appare
perduto, quando d’improvviso ecco Eracle riaffiorare dalle
profondità degli inferi, riuscire ad eliminare Lica appena in
tempo, potendo così reintrodurre l’ordine precostituito. Ma
quello che sembrerebbe il giusto ed auspicato “happy end”,
frutto d’una effettiva capacità di ascolto degli dei e della
loro volontà di cancellare ogni ingiustizia, si rivela viceversa
il preludio al vero e più significativo sviluppo narrativo:
ovvero a quell’inattesa irruzione della follia (vendicativamente
inviata da Era a sconvolgere la mente dell’odiato Eracle),
destinata a divenire la vera protagonista occulta degli eventi
ed a farsi strumento drammaturgico del profondo pessimismo
euripideo. Inaspettatamente infatti, dopo aver ucciso Lica (e in
preda a quello che oggi definiremmo un “raptus”), Eracle rivolge
le armi contro i familiari, massacrando cruentamente la moglie e
gli amati figli in un crescendo di delirio “schizoide” e
inconsapevole. Bisogna però attendere il rientro dell’eroe in se
stesso, perchè il dramma giunga al climax del suo pathos,
inchiodando il protagonista all’assurda nefandezza d’un misfatto
indotto dall’esclusivo capriccio d’una dea e destinandolo così
ad un futuro di incoercibile dolore ed assoluto abominio.
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Il brusco scarto narrativo fra le
premesse iniziali (l’ingiusta tirannide dell’usurpatore) e gli
inattesi sviluppi successivi (la pazzia omicida di cui è preda
Eracle) potrebbe apparire come alquanto artificioso ed anche
ricercatamente pretestuoso, ma è in vero del tutto coerente con
i connotati tipici della scrittura euripidea, poiché
adeguatamente funzionale alla trattazione di tematiche – quali
la disperante condizione di fragilità dell’uomo e la contestuale
estraneità degli dei ai suoi bisogni e invocazioni –
particolarmente care all’autore e quindi ricorrenti nella sua
opera.
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L’incontrollato e devastante
accesso psicotico di Eracle – qui impersonato da un ispirato
Sebastiano Lo Monaco nelle cui modulazioni fonetiche riaffiorano
echi della peculiare e somma recitazione di Randone – non è
infatti il portato d’una qualche “empietà” di cui l’eroe si sia
macchiato, ma sola conseguenza della scellerata ed umorale
permalosità di Era, e quindi di quell’arbitrio assoluto che
ispirerebbe l’abituale operato degli dei e di cui gli uomini non
possono che essere vittime inermi ed incolpevoli.
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Un laico ed attualissimo
pessimismo – questo di Euripide – ancora oggi in grado di
rappresentare perfettamente la totale aleatorietà dell’esistenza
umana e l’impossibilità di qualsivoglia ancoraggio a
rassicuranti referenti metafisici, e in quanto tale pienamente
capace di smascherare le effettive inconsistenze d’ogni
religione.
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Solo conforto, in questa vita
travagliata e senza senso, pare essere il sentimento
dell’amicizia con cui Euripide conclude questo suo dramma; un
sentimento tutto umano – qui incarnato dall’aiuto offerto dal re
di Atene al protagonista – ed alieno dalla dimensione del
divino, che, profilandosi quale unico possibile lenitivo della
disperazione più funesta, riesce infine ad aprire un minimo (ma
significativo) spiraglio ad un percepibile e rinfrancante vento
di speranza.
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Salvo Ferlito
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