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FILLY
CUSENZA
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Aspettando
Tommaso
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A cura di
Vinny Scorsone
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La
contaminazione di tecniche, linguaggi e discipline è il vero
sale della contemporaneità artistica.
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Non paghi
degli abituali ambiti operativi (forse vissuti come limiti o
prigioni), spesso insofferenti di cifre stilistiche troppo
stringenti, e comunque aperti ad ogni nuova e possibile
sperimentazione di carattere fabbrile ed estetico, gli
artisti dediti alle attività visive – sarebbe infatti fin
troppo riduttivo ed obsoleto parlare ancora di arti
figurative – oggidì tendono ad incontrarsi sul piano di una
comune progettualità, in un’ottica di complementare
collaborazione da cui sovente scaturiscono esiti meticci
estremamente innovativi e di grandissimo interesse.
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Ed è proprio
all’insegna della marcata ibridazione di esperienze
artistiche ed intellettuali di diversa matrice e
provenienza, che ha preso forma il bell’allestimento
realizzato alla galleria Studio 71, frutto dell’intersezione
dei percorsi di tre diverse donne: ovvero della fotografa
Elsa Mezzano, della scultrice Filli Cusenza e della critica
d’arte Vinny Scorsone.
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Tutta
incentrata sullo scandaglio della corporeità femminile,
questa iniziativa ruota infatti attorno alla esibita
prorompenza della gestazione, di cui viene resa la
componente simbolica e totemica (ed anche archetipica) in
tutta la sua ineludibile evidenza, ma sempre con un occhio
assai attento agli aspetti più dettagliati di ricerca
estetico-formale e lessicale.
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Il corpo della
donna, dunque, (e specificamente quello della Cusenza, qui
nel doppio ruolo di oggetto di ideazione artistica e di
soggetto promotore della ideazione stessa), fotografato nel
pieno della sua pregnanza, appare di fatto ripensato,
riveduto e corretto attraverso una sorta di ricostruzione a
più mani, che prevede il fantasioso innesto – mediante
cuciture – di candide sagome di tessuto (a mo’ di parti
anatomiche) su frammenti fotografici in bianco e nero
(centrati sul ventre tondeggiante), fino a pervenire ad una
compiuta ed assolutamente metamorfica totemizzazione del
processo gestativo.
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L’estroflessa volumetria addominale (sulla quale si
focalizzano l’ossessivo obiettivo della Mezzano e le
chiose in versi della Scorsone) pare in tal modo volere
quasi rilanciare e riproporre – seppure in termini
aggiornati e coerenti con una ben più sdrammatizzata
visione contemporanea – certi culti della fertilità
ancestrali (si pensi alle Veneri steatopigie del
neolitico), intorno ai quali è stato architettato tutto
un pensiero paleo-antropologico tendente a dimostrare –
non senza una certa carica di immaginazione –
l’esistenza di una più che ipotetica era matriarcale, la
quale avrebbe preceduto l’attuale assetto ancora
patriarcale e patrilineare della nostra società. Sia
quel che sia – ovvero che si tratti di una idea
scaturente da premesse di sapore puramente femministico,
o semplicemente di una iniziativa sostenuta soltanto da
motivazioni di natura artistica –, è certo che
l’impianto progettuale e di pensiero su cui poggiano
queste singolari opere ha l’indubbia capacità di
evidenziare l’intero potenziale estetico insito nel
corpo muliebre deformato dai meccanismi gestazionali. Un
corpo del quale viene resa – senza edulcoramenti
mammistici o infingimenti estetizzanti – la vigorosa e
scultorea plasticità e soprattutto viene disvelata –
senza pudore alcuno – quella irretente carica simbolica
che ne fa ancor oggi – pur nella dettagliata conoscenza
delle dinamiche biologiche – un misterioso tabù, oggetto
di un inconfessato interesse dai risvolti quasi
idolatrici e feticistici cui non sono estranee profonde
componenti psicoanalitiche.
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Pur non di
meno, questo corpo così ieratizzato nell’incombenza
primigenia del suo soggiogante potere riproduttivo,
riesce sempre a sottrarsi alle insidie di quel
retorico onnipotentismo che spesso permea le abituali
riflessioni condotte dalle donne sulla loro gravidanza;
e tutto ciò in virtù d’una riorganizzazione visuale del
soma, la quale, avvalendosi d’un approccio ricostruttivo
“frankensteiniano” (articolato col suddetto gioco di
innesti e sovrapposizioni quasi fumettistico), finisce
con lo svelare quel sottile filo d’ironia in grado di
stemperare l’intero insieme in una fabulistica e
immaginifica visione.
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Non si
creda però che la scelta dell’affabulazione implichi –
per ciò stesso – alcun eccessivo alleggerimento
contenutistico; poiché la capacità di queste opere di
farsi vettrici delle radicate fantasie albergate nella
psiche femminile permane in tutta la sua intonsa e
inalterata potenzialità. La leggerezza che le
caratterizza, infatti, non è mai esente dal sostegno
d’un pensiero forte e lungamente cogitato, poi tradotto
puntualmente in una narrazione assai fluida e
dettagliata.
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Raccontando e raccontandosi attraverso una meccanica
meticcia di decostruzione-ricostruzione visiva, questo
gruppo di artiste ci consegna per tanto una rinnovata
percezione e cognizione della propria topografia
somatica. Una fantasiosa e originale autotopognosia,
che, muovendo da ottiche interne e tutte femminili,
riesce infine a offrire le coordinate eccentriche da cui
osservare e scandagliare, con prospettiva “altra”,
questa particolarissima (e ancora non del tutto
esplorata) dimensione psico-fisica della corporeità.

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BARTOLO CONCIAURO
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Cuore di Palma
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A cura di
Vinny Scorsone
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La mostra
comprende 14 lastre di lamiera zincata trattata con inchiostri e
cera e un video in bianco e nero accompagnato da musiche di
Giovanni Kapsberger. E, mentre le
lastre sono riferite esclusivamente alla donna
in quanto tale e alla sua bellezza,
nel video Conciauro, nell’insolita
veste di regista, pone al centro dell’attenzione non tanto la
donna, peraltro elemento costante della mostra, bensì i
sentimenti comuni a tutta la razza umana.
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Scrive
Vinny Scorsone presentando l’artista
in catalogo “(…) Le sue lastre trattate, che paiono frutto di
sapienti morsure, restituiscono allo
spettatore immagini evanescenti appartenenti al mondo
delle emozioni svaporate dal ricordo. Innamoramento, estasi,
abbandono, trovano nella figura femminile, meno vergognosa,
rispetto all’uomo, di svelare le proprie gioie e dolori, un
tramite ideale. Sguardi sfuggenti, felicità attimi intimi,
indifferenza e orgoglio ferito, convivono, in questa mostra,
come se appartenessero ad un unico vecchio album di foto
scolorate dal tempo. (…)”. E ancora: “(…) Nel video, in rigoroso
bianco e nero, che egli presenta in questa
occasione e che da il titolo all’intera mostra, il suo
pensiero si esprime ancora con più vigore. Sobrio, come l’intera
esposizione, in esso l’autore
ripercorre i vari stati dell’innamoramento passando dalla
felicità al dolore causato dall’abbandono. Qui, più che in tutto
il resto della mostra, il concetto di palmo-palma è portato fin
quasi all’esasperazione. Il piccolo cuore, stretto dai legacci
dell’amore, soffre. Prima è un dolce legame ovattato dalla
cecità dell’innamoramento, poi un dolore che
si impossessa di tutto il corpo. Le sofferenze amorose
trasformano il piccolo scrigno carnoso in palma del martirio
donando al cuore tormenti, spasmi d’amore e lamenti.
Ma è un passaggio, una prova da
superare per potere tornare a sorridere e a
ri-innamorarsi. (…)”.
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La mostra è stata
realizzata con il contributo della Provincia Regionale di
Palermo.
Recensione
Contraddicendo
nettamente la sua abituale e peculiare cifra stilistica
pittorica – tipicamente caratterizzata da un lessico astrattista
nelle cui geometriche articolazioni però affiorano percepibili
allusioni biomorfiche –, Bartolo Conciauro ha optato questa
volta per una imprevista e radicale “rivoluzione copernicana”
della sua arte, singolarmente posta in essere attraverso una
ripresa figurativa di solido impianto narrativo.
Cuore di
palma – così si intitola la sequenza
di opere esposte alla galleria Studio 71 – è infatti una attenta
disamina della passione amorosa, tutta incentrata sul minuzioso
studio fisiognomico d’ogni minimo risvolto mimico (ma anche
posturale) indotto in una fanciulla assai leggiadra dal violento
e incontrollato infuriare del pathos sentimentale.
Una meticolosa
scansione dei molteplici, incoercibili e talvolta confusi stati
d’animo che si susseguono nella psiche femminile per effetto del
travaglio erotico, che Conciauro riesce a rendere con tempestiva
puntualità e con doti non comuni d’empatia, ricorrendo – per
altro – a una tecnica decisamente (almeno per lui) inconsueta,
ovvero al trasferimento di nebulose ed aeriformi immagini in
bianco e nero su lastra zincata e rinforzando il tutto con un
raffinato video contrappuntato da una altrettanto appropriata
colonna sonora di inconfondibile sapore madrigalistico.
Se nella serie di
fotogrammi su metallo, l’artista riesce perfettamente
nell’operare il “fermo immagine”, fissando i singoli “affetti”
nella loro intensa e complessa carica emotiva – così
sottraendoli alla naturale fuggevolezza delle cinetiche
intrapsichiche –, di contro, nel cortometraggio, la dinamica
interiore delle pene amorose viene resa nella totalità del suo
divenire con una completezza di sfumature cui contribuisce
impareggiabilmente la misurata gestualità della brava attrice
protagonista.
La parte e il
tutto, dunque, integrati in una sinossi ampia ed assai
esaustiva, la quale consente all’osservatore di concentrarsi su
ogni minimo fremito amoroso del soggetto effigiato, ma anche di
ricostruirne le tempestose derive interiori nel loro sofferto e
incontrollato maturare. E tutto ciò, senza alcun cedimento di
sorta o di maniera a stucchevoli compiacimenti e ad estenuati
languori, ma sempre con un lessico estremamente misurato che non
indulge ad alcuna teatralità eccessiva – anche e in special modo
nel ben calibrato video – e che piuttosto si rivela del tutto
funzionale – in virtù del sapiente effetto dissolvenza che
distingue le lastre zincate – alla tempestiva “inquadratura”
delle fuggevoli tappe del tumulto emozionale.
Una profonda
psico-analisi (nell’accezione semantica e non terapeutica del
termine), questa di cui Bartolo si è fatto artefice, ben
condotta all’insegna della compiuta interazione fra le varie
discipline visive, e che conferma ulteriormente l’esigenza
avvertita da molti artisti contemporanei di uscire dagli
abituali “seminati”, per sconfinare con proficuità in territori
“altri”, ove poter appagare il proprio impellente desiderio di
ricerca.

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- Carmelo Melfi
- Forme
e colori dell’anima
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La
forte scansione geometrica delle superfici pittoriche rimanda ai
precedenti storici dell’astrattismo più razionalista. Eppure, ad
un attento esame, il linguaggio di Carmelo Melfi pare piuttosto
muoversi su un registro binario, nel quale il forte impianto
progettuale non rinnega né mai espunge quelle turbolenze
emozionali che fanno abitualmente da lievito ideativo ad ogni
gesto artistico.
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La griglia
cartesiana, fatta di linee nette che riquadrano aree fluttuanti
sulle monocrome (e per lo più compatte) campiture dello sfondo,
perimetra infatti stesure decisamente più magmatiche, nelle
quali le screziature ruvide e materiche controbilanciano il più
morbido e serico andamento del colore circostante.
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Una “bipolarità”
lessicale – questa di Melfi – che contempera le due anime
dell’astrattismo storico (geometrica e informale) e che al
contempo sembra voler simbolizzare – seppur con qualche
didascalismo di maniera – la compresenza, in ogni psiche, di due
nature in apparenza contrapposte (quella razionale e quella
emozionale) e pur tuttavia imprescindibili ai fini d’una
fisiologica vita interiore.
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Euritmica e
suadente nelle soluzioni coloristiche, armonicamente organizzata
sul piano compositivo, la pittura di Melfi, col suo carattere di
ricerca non solo visuale ma anche psico-affettiva, rappresenta
dunque una estrema propaggine astrattista in grado di
oltrepassare i confini del mero decorativismo per farsi vettrice
d’un “messaggio” più profondo e articolato, decisamente più
aderente alla sensibilità dei travagliati tempi che viviamo.
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Franco Mulas
Palatale
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Raffinato
e brillante colorista, Franco Mulas pare affidare al polifonico
incedere delle nuances tutto il senso del proprio fare
artistico.
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Un uso decisamente
“espressivo” del colore, questo di Mulas, e in quanto tale
capace di scandire all’unisono il tumultuante divenire delle
dinamiche interiori, dando però loro una dimensione visuale
nella quale la sarabanda di cromie si ricompone in una sinossi
di assoluta euritmia. Infatti, benché riconducibile al grande
alveo dell’Espressionismo astratto, il lessico dell’artista
romano, pur nella parvente dominanza di esiti informali,
mantiene appieno quel senso di armonia compositiva – attraverso
l’appropriato accostamento delle tinte e la sapiente misura
delle pennellate – che è tipico della più classica figurazione.
Non è un caso, per tanto, che Fortunato Bellonzi abbia accostato
le sue inconfondibili (e spesso predominanti) azzurrità celesti
(ma potrebbero ben essere, dato il loro caratteristico
fluttuare, anche marine o ancor più fluviali o addirittura
cosmiche) a <<…certi cieli lacerati, turbinosi, alla Tiepolo, ma
più spesso alla Altdorfer ed alla Greco, però senza gusto
antiquario…>>, a conferma della “classicità” che permea nel
profondo questi dipinti e che giammai viene contraddetta
dall’ondivaga stesura destinata ad irretire i riguardanti col
suo caleidoscopio di avvolgenti dissolvenze. Ed è proprio il
fluido ed assai morbido procedere delle pennellate, il loro
accostarsi in una scansione corale di sfumature squillanti e
variegate, a conferire quel peculiarissimo senso di dinamismo e
di inarrestabile cinetica – da “panta rei”, per dirla con
Eraclito – che sembra animare dall’interno tutte queste opere,
per altro connotandole con una cifra stilistica assolutamente
impareggiabile.
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Nella serica
superficie dei supporti cartacei, ecco allora pulsare un intero
microcosmo popolato di presenze biomorfe e fitomorfe, in preda a
moti interattivi e collisioni inerziali foriere di sempre nuova
vita. E sembra quasi di trovarsi al cospetto del farsi
gorgogliante del principio d’ogni cosa, di quel magmatico
ribollire del “plasma (o brodo) primordiale” in cui tutto pare
aver avuto il suo incipit “casuale e necessario”.
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Pittura di
dimensione “universale”, dunque, questa di Mulas, in cui
predomina un carattere “energetico” che va ben oltre il mero
dato contingente, per sconfinare in quel senso di “assoluto” ove
l’arte si sublima nei suoi esiti più alti ed arcanamente
ineffabili.
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Antonino
Longo
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Rossi dicotiledoni
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Nella
singolare mostra saranno esposti lavori prodotti dall’artista,
empedoclino di nascita ma
palermitano di adozione, nell’ultimo
anno. I papaveri sono i protagonisti incontrastati di questa
nuova produzione esposta per la prima volta: campi rossi si
alternano a campi verdi sui quali occhieggiano rossi e
fiammeggianti papaveri anticipatori di
estati
calde e assolate. Scrive, infatti, Francesco
Musotto
nella sua presentazione in catalogo: …”le opere di
Longo
sono, anche per un profano, aria buona
da respirare a pieni polmoni, finestre aperte sulla natura
mediterranea, che evocano una solarità genuina,
indiscutibilmente contagiosa, candida pur se fiammeggiante.
E
sono la fiamma, il calore delle porpore e dei rossi, la vitalità
del verde, le cifre della pittura dell’artista di Porto
Empedocle, che la rendono subito emozionante, istintiva.”…
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E
Domenico Portera nel suo testo
presente in catalogo, scrive: …”splendente nel suo colore,
appariscente, attraente nella sua flessuosità, il papavero è
stato sempre rappresentazione del sonno e dell’oblio. E’ stato
considerato nei piccoli e grandi misteri la morte e la
rinascita.”…
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La mostra è stata
realizzata con il contributo della Provincia Regionale di
Palermo e sarà visitabile fino al 13 maggio 2005 con orario
dalle 17.00 alle 20.00 escluso i festivi.
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STUDIO 71
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L’addetto stampa
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Mariella
Calvaruso
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Sabato
16 aprile alle ore 18.30, nei locali della galleria Studio 71 di
Palermo, verranno
presentate tre
etichette realizzate dal Maestro
Franco Nocera
per
l’azienda vinicola Urso che ha sede
a Petrosino,
uno dei comuni più vitivinicoli d’Italia.
Le etichette,
firmate di pugno dall’artista, caratterizzano la
produzione dei Vini d’autore 2004:
Grillo,
Grillo Ambra e
Nero d’Avola
Tali vini,
accompagnati da una brochure (curata dalla galleria d’arte
Studio 71), sono presenti alla
importante rassegna Vinitaly di
Verona a conferma dell’impegno e della cura che l’Azienda
Urso
ha profuso in questa operazione di immagine della Sicilia nel
campo imprenditoriale e artistico.
Scrive
Vinny Scorsone nell’elegante
presentazione “Come vino sgorgante da fonte, la pittura di
Franco Nocera si riversa sulla tela,
intensa nei colori e nei riflessi ambrati o rosso
rubino. L’impasto cromatico si
liquefà
sui corpi incandescenti dei giovani amanti, si fa carezza,
incendio disegnando composizioni forti come il sangue e
invitanti come limpide acque. Sospesi in una dimensione
intermedia tra il reale e il fantastico. “gli attori” di queste
rappresentazioni iconografiche si
inebriano di pigmento, si fanno interpreti di sogni intimi
normalmente inespressi. La figura femminile falsa protagonista
di queste opere (tre in tutto), è il centro visivo di
composizioni ludico-amorose che ammiccano allo spettatore,
invitandolo a condividere momenti intensi, per poi subito
dopo, riturarsi sottolineando un confine tra la sfera
pubblica e quella privata, che mai dovrà essere superato o
condiviso realmente con alcuno. Eros in progressione di forme e
personaggi. Il sogno solitario diviene gioco a due per poi
sconfinare in un incontro a tre di cui, però, la coppia rimane
il perno imprescindibile, all’interno della quale dominano,
soprattutto, i sentimenti sinceri e la passione.
Nel corso della serata
interverrà il Prof. Aldo Gerbino,
sul tema “Arte e vino” Le opere saranno esposte fino al 23
aprile 2005 – orario dalle 17.00 alle 20.00
Palermo, 04/04/2005
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