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LEONARDO
CARRANO
- "Le
potenzialità espressive del silicio"
-
- “…Non
solo film o dipinti. Non
cartoonist, non pittore. Carrano rientra in
quell’accezione di artista che andava tanto di moda nel
Rinascimento: colui in grado di progettare un’arma da
guerra così come una saliera o un grande dipinto.”
- E’
difficile non concordare con
quanto scritto da Vinny Scorsone nel testo di
presentazione di questa mostra; è difficile, poiché gli
interessi artistici di Leonardo Carrano spaziano ad ampio
raggio, annoverando – con pari impegno – grafica,
pittura e cinema d’animazione. E senza che ciò implichi
– sia detto con chiarezza – alcuna negligente
dispersione in una moltitudine di rivoli inconclusi, ma
piuttosto rivelando una profonda capacità di scandaglio
di ambiti diversi, con quel piglio sperimentale che è il
sale e il fondamento d’ogni qualitativa attività
artistica.
- Non
sorprende, dunque, che in questo allestimento si trovino a
convivere – in un rapporto osmotico di esaustiva
dialettica fra opposti solo apparenti – opere grafiche
di gusto palesemente informale ed un video (per altro
presentato all’ultima Biennale di Venezia) improntato ad
un lessico dichiaratamente figurativo, ma depurato degli
aspetti più veristici in favore d’una semplificazione
della forma di marcata valenza simbolica.
- Non
v’è, infatti, contraddizione – a ben guardare – fra
le une e
l’altro, proprio perché si configurano come una
composita e ideale cartografia delle inquietudini che
animano il sentire e l’agire di Carrano e che dovrebbero
– in realtà – esser condivise (animandoci o, forse,
semplicemente rianimandoci) anche da molti di noi.
- Se
nelle serigrafie, l’articolato andamento maculare dei
neri che si dipanano sul chiarore degli sfondi pare
alludere ad una dinamica interiore tendente ad affiorare
per la sua incoercibile impellenza, nel video, invece, è
la griglia razionale a prendere il pieno sopravvento,
facendosi strumento funzionale d’una irretente
estroflessione di profonde irrequietezze, ammantate –
senza essere celate – con le vesti d’un onirismo
rigoroso e al contempo incantato ed elegante. Il pretesto
narrativo – con cui si apre e chiude la sequenza delle
immagini – è il fantasticare d’un bimbetto intento a
disegnare; un pretesto che consente a Carrano di liberare
interamente il proprio immaginario, dando così corpo a
non poche ubbie e a molti incubi relativi al nostro viver
quotidiano. Grazie a un gioco di felici spiazzamenti
visuali – da singoli particolari astratti si arriva, per
progressiva estensione del campo ottico, a figure complete
e intellegibili nel loro potere evocativo –, l’artista
romano introduce gli spettatori nel suo dedalo di sogni ed
allucinazioni, coinvolgendoli nel proprio “mood” con
un simbolismo intriso di tangenze surrealiste, ma assai in
linea con le sintassi estetiche – computergrafica e
fantascienza soprattutto – della contemporaneità.
- Carrano,
dunque, con quello che si potrebbe ben definire un
“aggiornato idealismo” mira a provocare
intelligentemente lo spettatore, sospingendolo con
raffinata sottigliezza a soffermarsi a riflettere sulle
gravose problematiche dell’esistere individuale e
sociale. Una provocazione che non pretende di offrire
risposte esaustive, né vuol essere un proclama, ma
semplicemente un invito a dare un personale contributo, in
termini di partecipazione emozionale e narrativa, al
flusso delle immagini. Scrittura aperta – questa di
Carrano – con la quale si è quindi chiamati a
interagire, a dimostrazione di come prioritario compito
dell’arte non sia quello di indottrinare, ma quello di
porre domande e suscitare dubbi, alimentando una
dialettica compiuta fra opera e fruitore, all’interno
della quale il fare artistico può giungere davvero al suo
pieno compimento.
dal
28 novembre al 14 dicembre 2003

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Kaos
a Studio
71
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- Sembra
quasi un ribollir di sangue il Kaos di Perricone (cm 300 x
400) presentato l’8 novembre alla galleria Studio 71 di
Palermo (testo in catalogo di Salvo Ferlito).
- In
questa sorta di retablo moderno, gravido è l’universo e
una grande forza dirompe dal suo ovulo investendo e
modificando tutto ciò che gli sta attorno. Flutti
sanguigni di una nuova materia in formazione, prendono
forma umana, poi scompaiono inghiottite dal flusso
continuo di un mondo nuovo dove è già iniziata la lotta
per la sopravvivenza. Una visione scioccante che sembra
far toccare i poli opposti dell’inizio e della fine: la
magnificenza della creazione e le atroci fiamme infernali.
Si è così di fronte ad un insieme di forze che vorticano
smovendo le corde dell’animo umano quasi trascinando
l’occhio del fruitore dell’opera in una vertigine
stendhaliana. Retablo, dicevo, poiché così identifica
questo suo lavoro Perricone, sottolineando il suo lavoro
con l’arte barocca e tardo rinascimentale; un polittico
unico composto da 12 tavole.
- Rosso
fuoco, rosso vitale, rosso della potenza maschile, in una
composizione in cui appaiono forme michelangiolesche e
accenni di Bosch. Un caos in cui non vi è disordine
(poiché non può esistere il disordine se ancora nessuno
ha stabilito cosa sia l’ordine), tutto è organizzato,
bilanciato e retto da un piccolo vortice posto poco al di
sotto del centro fisico dell’opera: è lì che tutto si
“crea”.
- Questo
nuovo lavoro di Perricone si riallaccia al precedente “lotta
per la vita” esposto anch’esso alla Galleria Studio 71 nel 1996
e presentato dal
compianto Francesco Carbone. Ma qui il discorso
dell’artista vuole intavolare è più complesso, più
deciso. Il suo Io esplode in una composizione fatta per
tramandarsi. Essa è la summa il “testamento” di
questo artista.
- Maschile
e femminile si uniscono, la forma si libera e cambia.
- Legato
all’assunto fisico di Eraclito secondo il quale “nulla
si crea nulla si distrugge ma tutto si trasforma”,
Perricone mostra un universo in divenire costante, non
limitato a un preciso momento della storia dell’uomo e
dell’universo, ma presente ogni giorno nella nostra vita
poiché l’animo e il corpo umano subiscono continui
cambiamenti. Inizio e fine si toccano senza provocare
attrito ma fondendosi per creare una ciclicità eterna
fatta di materia e di spirito.
-
- Palermo,
9 Novembre 2003
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- ALESSANDRO
DI GIUGNO FOTOGRAFO
- ovvero
la fotografia come
pittura e narrazione
-
- Alessandro
Di Giugno è quel che si dice un “artista colto”.
- Il
suo modo di concepire la fotografia lo colloca infatti, a
buon diritto, in quel novero di operatori delle arti visive
nei quali è palese il peso esercitato da una lunga
tradizione. Una tradizione più pittorica, che squisitamente
fotografica, come del resto attestano tanti dei suoi scatti,
meditati e costruiti con quella meticolosa preparazione che
è tipica proprio dei pittori.
- Esente,
nonostante la giovane età, da irruenze e immediatezze, Di
Giugno elabora così le sue immagini, progettandole con cura
certosina, per poi tradurle nel concreto grazie all’uso
della camera.
- Basterebbe
osservare un suo grande autoritratto di qualche tempo fa, in
cui si è abbigliato con camicia di pizzo e ha fatto uso di
marcati contrasti chiaroscurali (con la figura che emerge
parzialmente dalla tenebra d’intorno), per capire con
chiarezza quanto egli abbia studiato la pittura del ‘600,
con un occhio di riguardo per la luministica caravaggesca e
per i suoi cascami sulla ritrattistica dell’epoca.
Un’attenzione che si riverbera anche nella serie di nature
morte esposte l’anno scorso nell’ambito della mostra “A
sud niente di nuovo”, nelle quali il senso armonioso e
misurato della composizione, il sapiente gioco di luci ed
ombre, nonché l’atmosfera di misteriosa sospensione
rimandano alla stagione degli “still-life”
sei-settecenteschi con qualche contenuta contaminazione di
ascendenza metafisica.
- Che
Di Giugno quindi guardi alla pittura, ancor prima che a
referenti più squisitamente fotografici, è confermato, con
evidenza non minore, dalle ripetute e recenti incursioni
nelle tematiche di stampo socio-antropologico. Le fotografie
dei pescatori dell’Arenella, realizzate in collaborazione
con Scalia ed altri ancora, rivelano di fatto una certa
distanza dal consuetudinario approccio etnografico,
propendendo piuttosto per una articolata elaborazione
narrativa, al cui interno i soggetti fotografati divengono i
protagonisti d’una storia dai profondi risvolti
psicologici. Un dato che si riscontra anche nei molteplici
ritratti di storici e critici d’arte palermitani (visibili
fino al 31 luglio alla galleria Studio 71), incentrati come
sono su di una empatica – e non priva di umorismo –
enucleazione del tratto caratteriale dal connotato
fisiognomico, e narrativamente costruiti attorno alla
fattiva collaborazione (e complicità) fra il fotografo e i
personaggi immortalati. “Intellettuali” dei cui vezzi e
vanità Di Giugno si rivela analista assai fine,
assecondandone stranezze ed egocentrismi, sottolineandone
– sempre con garbo – le smanie protagonistiche, e
collocandoli con sagace pertinenza negli “scenari
operativi” più adeguati, a dimostrazione d’una maturità
artistica non comune in un ragazzo della sua età.
- Racconti
per immagini, dunque, quelli “scritti” da Alessandro Di
Giugno; elaborati, scatto dopo scatto, secondo un criterio
di impaginazione sequenziale che risponde a una progettualità
assai ben cogitatata e mai lasciata al caso.
- Lo
prova con chiarezza la serie di fotogrammi del “Jardin
Planetarie” (recentemente esposti alla Quadreria del
Lotto di Trapani), profondamente permeati di gusto
surrealista, ma mai slegati o frazionati in autonome
visioni, concatenandosi alla perfezione, col loro intenso
contrasto di colori, nel compiuto resoconto d’un
immaginifico disagio esistenziale.
- Un
modo, quello di Di Giugno, di riportare la fotografia ai
suoi aspetti più squisitamente artistici ed estetici,
svincolandola così dal mero criterio cronachistico o
pubblicitario troppo spesso prevalente e recuperando quelle
valenze letterarie frequentemente sacrificate in nome
d’una presunta (e spesso irrealizzabile) oggettività.
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- L’instabilità
sembra costituire fulcro su cui possano giostrare le
“derive” della prassi artistica,
e dove, così come sottolinea Franco Spena, non sia più
possibile riconoscere oggetti dell’arte posti a base d’una
perennità espressiva, resa ormai impropria dall’iperbole
della velocità. Allora questi autori, tutti cronologicamente
accomunati dalla nascita negli ansiosi anni Cinquanta,
trasfondono il loro itinerario creativo in un pieghevole ottico
capace di entrare in sincretismo con pagine della comunicazione
o del messaggio antropologico. Ciò realizzato in maniera
intensa e personale, per cui il senso della ricerca, pur nella
dimensione d’un agire artistico centrato nei canoni della sua
stessa evoluzione, s’impone quale marchio non più eludibile.
Una necessità prorompente si mostra subito in questa collettiva
(“Derive”, galleria ‘Studio 71’, catalogo ‘Qal’at’
a cura di F. Spena, maggio-giugno): quella di subire il fascino
del primigenio, d’una arcaica germinazione sia che ci si
rivolga, come fa Calogero Barba, alla mitografia terrestre, sia
che si utilizzi il marmo e il legno così come indicato da
Lillo Giuliana; sia chi (Lambo e Tulumello), attraverso
plotter painting o tecniche miste, cerca armonie insite nella
conflagrazione o nella iterazione. Altre volte, nell’agile
pulsione e incisività di Giuseppina Riggi, il segno diventa
messaggero trasparente, intermittenza e monocroma segnalazione
di un effimero, quasi di un disagio coltivabile. Ancora la
dimensione iconica, colma d’una ironia tragica, si esprime
efficacemente nelle crude tavolette di Salvatore Salamone
(“Lettera da Bagdad”, 2002). Qui segno e materia si
associano nel trasmettere il corpo denso del loro lambire parole
e gesti, ma anche nel denunciare una colpevole assenza. Una
visibilità, che in Salamone s’attesta nell’interfaccia tra
poetica classica e ricerca, posta in quel settore mediano
offerto alla dimenticanza e all’irraggiamento perenne della
parola.
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DERIVE
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- Con
lodevole coerenza, il gruppo di artisti nisseni –
Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo,
Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena,
Agostino Tulumello –, che della attenta analisi dei
linguaggi visivi ha fatto un obiettivo programmatico,
continua nel suo interessante percorso, offrendo un
ulteriore saggio delle proprie capacità.
- Dal
segno alla parola (di cui però viene esaltato
prevalentemente l’aspetto semiotico), l’attento e
quasi ossessivo scandaglio delle infinite possibilità
espressive e comunicative insite in ogni traccia,
lettera o lemma, con tutto il relativo corteo di
ambiguità polisemiche, viene riproposto con chiarezza
dalla serie di opere in mostra alla galleria Studio 71,
inusualmente realizzate all’insegna d’una estrema
levità e d’una apprezzabile ironia.
- Da
“Le Falesie di Isma” di Lillo Giuliana – un
bassorilievo in candido marmo di Carrara nel quale
l’intonsa austerità del bianco pare violata da una
pioggia di minute lettere cadenti – alla “Babele”
di Michele Lambo – un plotter painting su tela
rievocante il movimentismo visuale dell’avanguardia
futurista, ma assolutamente attuale nella sua fedele
rappresentazione della contaminata confusione verbale
del momento –, dalle “Lettere da Bagdad” di
Salvatore Salamone – reinvenzione filologica delle
antiche scritture cuneiformi mediorientali, che pare
levarsi come un grido d’accusa nei confronti di chi,
in nome di millanterie pseudo-democratiche, ha
recentemente permesso lo scempio delle antichità
irachene – a “L’uovo del giorno” di
Calogero Barba – una installazione pregna di senso
d’umorismo che, con le sue uova incartate da fogli del
quotidiano “Il Giorno” e poste all’interno d’una
culla, la dice lunga sulle “sorprese comunicative”
riservateci dai media –, da “Il tempo di
sempre” di Agostino Tulumello – meticolosa
riflessione sulla seriale iteratività delle misure
temporali, cadenzata con segni rarefatti ma implacabili
nella loro inappellabilità – a “Poesia” di
Franco Spena – un “ready made” di grande impatto
ottico realizzato accumulando frammenti di lattine in
una valigetta, quasi a voler enfatizzare le potenzialità
inespresse occultate nelle pieghe dell’attuale
profluvio di parole – e fino ad “Ecstasis”
di Giuseppina Riggi – un susseguirsi di leggiadre
pennellate su supporti trasparenti in grado di
ricondurre il gesto artistico alla sua essenza
comunicativa più minimale, diretta ed aeriforme, in una
libera riconquista dello spazio spesso negata o limitata
da più classici supporti –, è tutto un continuum di
spiazzamenti psico-sensoriali, nei quali il riguardante
è come indotto dall’ambigua molteplicità
significativa dei significanti, perseguito con un sense
of humor e una giocosità (in cui non è difficile
ravvedere qualche tangenza dadaista) a dir poco
encomiabili.
- Una
mostra – questa della galleria Studio 71 – che
conferma, una volta di più, come si possano trattare
tematiche estremamente impegnative senza eccedere in
tetraggini o tediosi rigorismi, ma piuttosto liberando
la più fantasiosa ideatività in una sarabanda ludica
(tuttavia mai superficiale) capace di coinvolgere a
fondo gli osservatori nell’analisi di problematiche
altrimenti del tutto trascurate dalla pubblica opinione.
- Fino
al 10 giugno
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- ELSA
MEZZANO
- "Ritratti"
-
La
ritrattistica, si sa, è arte antica.
- Spesso
connotata da un insistito gusto fisiognomico, quasi a voler
cogliere (e questo ben prima delle derive positivistiche di
stampo lombrosiano) anche nel minimo scarto somatico ogni
corrispondente recesso della psiche, essa è da sempre deputata
a immortalare i personaggi più significativi di ciascuna epoca,
tramandandone, nei suoi esiti più alti, più il profilo
psicologico, che la verità delle fattezze (si pensi, per fare
qualche esempio, a Tiziano, Rembrandt, Goya o a Nadar per la
fotografia).
- Non
sfugge a tale intento neanche l’opera di Elsa Mezzano,
fotografa torinese che ha “catalogato”, nella sua ideale
raccolta personale, alcuni dei più rappresentativi esponenti
del mondo culturale degli ultimi decenni.
- Una
autentica galleria di “intelligenze” di cui Elsa Mezzano è
stata in grado di fissare al meglio anche la più impercettibile
sfumatura caratteriale, offrendone agli osservatori l’essenza
più autentica e profonda.
- Ecco
allora la giovialità, quasi clownesca, di Gonzalo Alvarez Garcìa,
la pensosità, gravida di preoccupazioni, dell’esule iracheno
Younis Tawfik, l’(auto)ironia della Covito, la penetranza alla
Maigret dello sguardo di Aldo Gerbino, la assorta meditatività
di Bonito Oliva, l’inquietante magnetismo di Del Guercio o la
mimica estroversa e tutta sicula di Buttitta.
- Una
sequenza di scatti, dunque, che confermano la qualitativa
vocazione ritrattistica della Mezzano (capace, in vero, di
altrettanto suggestive foto paesaggistiche) e che ne fanno una
importante testimone del tempo che viviamo, destinata, con la
propria opera, a tramandarne i mille volti alternatisi sul suo
proscenio culturale.
- Non
è un caso che proprio Gonzalo Alvarez Garcìa, nel presentare
questa mostra, abbia così scritto:<<Questi ritratti
fotografici di Elsa Mezzano sono biografie istantanee, racconti
veloci come fotogrammi. Il sostantivo ritratto, dal latino retràhere,
ha tra i suoi significati quello di estrarre e di tirare
indietro: esprime la volontà del fotografo di estrarre qualcosa
dal suo segreto nascondiglio e di fermare qualcuno che, se non
trattenuto dall’artista, rischierebbe di precipitare nel mare
dell’oblio>>. A ribadire, quindi, la non comune
inclinazione ad eternare i tratti e, attraverso essi, anche gli
“affetti”, in quell’assolutezza dello “hic et nunc”
che è prerogativa incontrastata della fotografia.
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- LILLO
GIULIANA
- “Fino
al settimo cielo”
-
fino all'8 marzo 2003
-
C’è
un totemismo forte ed evidente nelle sculture di Lillo Giuliana; come
a voler investire la levigata materia lapidea di contenuti ieratici e
solenni.
- E
nonostante ciò, lo specifico riferimento a simbologie o linguaggi ben
codificati non pare del tutto rilevante – benché l’artista paia
risentire di antiche e più recenti epifanie nel campo del sacro e
dell’artistico –, prevalendo piuttosto il riutilizzo in chiave
personale, nel senso del dare forma a un proprio immaginario
cosmogonico e teogonico, di quanto tramandato dalla tradizione
scultorea precedente.
- Il
ricorrente monolitismo, lo slancio ascensionale, gli astromorfismi e i
biomorfismi attingono, infatti, a un consolidato repertorio (che va
dalle sculture megalitiche ai monoliti di Kubrick, passando per il
raffinato minimalismo di Brancusi), e tuttavia Lillo Giuliana,
riproponendolo nelle vesti d’una polita e quasi serica levigatezza,
riesce ancora nell’intento di rinnovarne, con autonomo apporto, le
semantiche profonde e radicate.
- Pare
palese, infatti, il farsi delle forme mediatore fra mondo fisico,
delle cose e della natura, e mondo metafisico, dei contesti
“altri” (platonici, come indica Vinny Scorsone, o più francamente
spirituali), nell’elegante, ma contenuto per misura, dimensionarsi
della materia nello spazio. Un dimensionarsi, per l’appunto, che non
implica mai un’occupazione pesante ed incombente dell’ambiente
circostante; ambiente con il quale, piuttosto, le opere di Giuliana
paiono colloquiare, integrandovisi conformemente in virtù di tagli,
fori e fenditure, grazie ai quali si riafferma quel rapporto fra
interno ed esterno, fra chiuso in sé ed aperto verso l’ignoto, fra
confinato e sconfinato, su cui ruota l’intera organizzazione
universale, e quindi – biologicamente e simbolicamente – tutto il
nostro viver quotidiano.Forse le sculture di Giuliana, che pure
affascinano e colpiscono per la loro levità, non cambieranno il corso
dell’arte contemporanea, ma sono certamente destinate a dare un
significativo contributo a quella educazione estetica che a
tutt’oggi, alle nostre latitudini, pare ancora un miraggio
svaporante all’orizzonte.La
mostra, che sarà visibile fino all'8/3/2003, si avvale dei contributi
in catalogo di Aldo Gerbino, Giuseppina Radice e Vinny scorsone.
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- FRANCO PANELLA
- "Ombre
da Gaza"
fino al 15 febbraio 2003
- Quella
fra ragione e sentimento è generalmente considerata
un’insanabile contrapposizione. Ma nelle opere di Franco Panella
– in esposizione alla galleria Studio 71 fino al 15 febbraio –
quest’apparente (apparente perché senza ragione non può
esservi coscienza d’alcun sentimento) dialettica fra opposti
pare ricomporsi con plausibile armonia.
- L’impianto
cartesiano, dettato da una scansione per linee ortogonali delle
superfici, viene infatti costantemente temperato dagli inserti di
macule sabbiose o ancor più dalla giustapposizione di frammenti
fittili, atti a bilanciare, ridimensionandolo, l’inevitabile
effetto ottico a scacchiera di stampo quasi topografico. Ne
consegue una dinamica di “cretti”, che paiono ispirarsi a
quello realizzato da Burri a Ghibellina (non si dimentichi che
Panella è originario della terremotata Montevago), a
testimonianza d’una volontà di costruzione (o ricostruzione)
simboleggiante, concretamente, l’aspirazione a superare il
limite ottico e interiore imposto dall’uniformità della
“tabula rasa”.
- Un
afflato particolarmente percepibile proprio in quelle opere –
come Sessantadue rosso o Ventitre/tre venti – in
cui l’aggetto delle tessere argillose appare più evidente, sì
da violare l’intonsa monocromia-monotonia di fondo. Non a caso
il titolo della mostra, “Ombre da Gaza”, testimonia
d’una passione politica e civile assai palese, che pare
concretarsi in Ombre 59 ove il metallo di supporto rimanda
con chiarezza all’idea d’una prigione.
- Desiderio
di libertà, dunque, per un popolo o una nazione, e volontà –
come detto – di edificazione d’un mondo nuovo e
auspicabilmente migliore. Sincero idealismo che si traduce in una
lucida smania di fare (attestata dalla febbrile manipolazione
dell’argilla), senza scadere in incontrollate derive passionali,
ma sempre contemperando il rigore dell’intelligenza coi suoi
inderogabili cascami psico-affettivi.
- La
mostra è stata curata da Aldo Gerbino e si avvale di un
contributo in catalogo di Gonzalo Alvarez Garcia.
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- PIPPO GAMBINO
- "Aspettando le lunghe ombre della sera"
fino all'11 gennaio 2003
Trasfigurare il veduto, riscattandolo dai suoi meri connotati
sensoriali, per advenire alla pura visione - intesa come elaborazione
emotivo-cognitiva di quanto introiettato -, è dote non comune, ascrivibile solo ai veri
artisti. Novero al quale appartiene a buon diritto Pippo Gambino, che, nel suo lungo iter
artistico, della capacità di infrangere langusto limite delladesione al dato
naturale ha fatto un cardine, optando per una pittura di grande pathos, ove al colore,
profuso con estrema libertà, è affidato lempito della propria irruenza emozionale.
Ciò fa di Pippo Gambino un pittore in sintonia col magistero degli espressionisti, dai
quali ha mutuato la tavolozza accesa e incandescente, nonché una pennellata libera e
aggressiva, ma senza imbrigliamenti in crudezze di teutonica ascendenza, essendo
prevalente un transfert passionale per la propria terra - nel senso catulliano
dellodi et amo - che tutto armonizza nellequilibrio della forma e del colore.
Non è un caso che, nel definirne il gesto artistico, Vinny Scorsone così abbia di lui
scritto: La sua è una pittura amorosa vissuta con passione, con la violenza di un
amante travolto dalloggetto del suo sentimento. Un connotato ben percepibile
nella serie di paesaggi esposta alla galleria Studio 71 - ove sarà visibile fino
allundici gennaio -, il cui comun denominatore, come attestano molti titoli, è la
mediterraneità. Mediterraneità che Pippo Gambino declina con una propensione per le
gamme fiammeggianti - dei rossi, dei gialli e degli arancioni variamente coniugati -
sulfureamente commiste a grumi scuri, e solo di rado inframezzate da un improvviso
verdeggiar di campi o da un aprirsi di cupe azzurrità. Mediterraneità che però non
implica la patologia della mediterraneite, trovando nella forza degli impasti e nelle
impetuose tessiture una sempre convincente stura per i tumulti suscitati dal porsi in
relazione con una terra - la Sicilia - al contempo avara e ubertosa, docile e selvaggia,
madre e matrigna.
Il linguaggio prescelto è adatto alla bisogna, oscillando lungo il crinale che separa la
forma dal suo magmatico dissolversi in un gorgo dastrazione. Così, si tratti di
incandescenti Bagliori sullEtna o di cromaticamente impetuosi
Paesaggi mediterranei o, ancora, di un inquietante e misterico Tramonto
a Isola o di una incombente e presaga Quasi notte, la Sicilia di Gambino
pare scandagliata in tutte le sue varianti psico-affettive, svelando unintricata e
spesso drammatica narrazione dun ancora irrisolto e non del tutto pacificato legame
con chi ci ha generati nel corpo e nella mente. Un edipico complesso cui soggiacciono,
forse, tutti i siciliani, ma che Pippo Gambino tende a elaborare congruamente in un eros
dipanato fra slanci di affettiva compulsione, però sempre contenuti nella perimetrata
violenza del trasmutarsi dogni emozione in sentimento.
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