PALAZZO   SANT'ELIA
Palermo

 

   
 
  
FRANCESCO CLEMENTE
Frontiera di immagini
La grande personale di Francesco Clemente a Palazzo Sant’Elia testimonia di quel “ritorno alla pittura” teorizzato dal curatore Achille Bonito Oliva, funambolo della parola e vero inventore della Transavanguardia
 
 
In altre epoche – quelle in cui la lingua della cultura era il latino, e non uno scialbo, ecolalico e televisivo inglese – si sarebbe giustamente parlato di “ars gratia artis”.
Qual’altro criterio, d’altronde, – se non questo – potrebbe adattarsi meglio all’ideare e agire artistici d’un pittore quale Francesco Clemente, artista contemporaneo che della ricerca eminentemente estetica pare aver fatto il proprio fine elettivo e prioritario? Non va infatti dimenticato che egli (insieme a Cucchi, Chia, De Maria e Paladino) è uno storico componente e protagonista della Transavanguardia, movimento non a caso programmaticamente improntato (dal suo “inventore”, l’immaginifico e televisivo critico Achille Bonito Oliva) ad una mirata “reazione” nei confronti della cogenza costrittiva imposta dalle correnti e avanguardie del secondo ‘900 (con un particolare “rigetto” per le desertificanti limitazioni dettate dall’Arte Povera e da quella Concettuale) e ad un liberatorio “ritorno” al più tradizionale e consuetudinario perseguimento di finalità squisitamente estetiche (in termini di pieno recupero del piacere di dipingere e di realizzare immagini godibili e irretenti).
Due caratteri fondanti e costitutivi (benché non sempre estrinsecati in maniera eccelsa), questi della Transavanguardia, che però – va ribadito con chiarezza – senza l’apporto, il ruolo e lo spessore (ma anche l’esuberante ed egocentrico narcisismo intellettuale) del suddetto Bonito Oliva (assoluto maestro della più imbonente pirotecnia verbale, e tuttavia effettivo ideatore di interessanti modelli interpretativi con cui “leggere” l’arte contemporanea) sarebbero sicuramente rimasti sprovvisti di alcun inquadramento critico o di qualsivoglia forma di sistematizzazione, venendo quindi destinati ad un monadica dispersione al di fuori di accomunanti perimetri linguistici e soprattutto – pecunia non olet – di immancabili “linee guida” per l’andamento del mercato.
 
La “caleidoscopica” pittura di Francesco Clemente (in esposizione fino al 2 marzo a Palazzo Sant’Elia) va dunque “letta” alla luce di quanto testé premesso, e non può quindi stupire che essa presenti significative note di suadenza e gradevolezza ottiche, quali connotati “strutturali” in grado di fungere da unificante filo conduttore e assimilante denominatore estetico. Ecco allora opere come In love o come Worlds – due grandi acquarelli i cui soggetti sono, rispettivamente, delle api alternate a dei cuori e degli ombrelli colmi d’acqua – attrarre ed irretire gli osservatori col peculiare gioco dei loro allegri e vivaci tonalismi e col gaio horror vacui con cui le inusitate immagini si compongono sulla carta dei supporti. E parimenti Porta Coeli – il grande autoritratto a tempera del 1983, che accoglie i visitatori nella prima stanza del percorso espositivo – offrire un esempio preclaro ed evidente della notevole capacità del pittore napoletano di padroneggiare i colori, dando luogo a calde e intense campiture, e soprattutto fornire la misura della non comune attitudine a comporre le figure con eleganza rarefatta, sviluppando raffinate e armoniose narrazioni visuali. Una inclinazione – quella per l’autoscavo psicologico impregnato di tensione emozionale ed affettiva – che percorre come una correlante tramatura l’intera esposizione, e che ne costituisce in qualche modo un ricorrente e cadenzante leitmotiv. Un pluridecennale racconto di sé che si sostanzia di svariate e fantasiose miliaria e declinazioni (in forma di ibrido uomo-animale in Self-portrait as a Fly, Self-portrait as Snake e Self-portrait as a Hare, tre grandi acquarelli del 2005, o in termini di insolita sovrapposizione con un noto ritratto femminile di Bellini in Winter woman VI, un olio del 2011), tutte però in grado di descrivere e dar forma fedelmente ai tanti modi di intendere – momento per momento – il senso intimo del proprio essere ed esistere.
Il tutto “condito” (non senza una spiccata carica d’ironia) da un evidente e percepibile gusto per l’innesto e l’ibridazione di spunti visivi di svariata provenienza (portato dei molteplici viaggi per il mondo e delle tante peregrinazioni di natura culturale), nel pieno rispetto di quel “nomadismo” intellettual-artistico, propagandisticamente “sbandierato” – dal solito mentore Bonito Oliva – quale distintiva espressione della “rivoluzionarietà Transavanguardistica”, ma in verità – ci sia consentito dal critico napoletano – sempre esistito nelle arti visuali, in quanto frutto, in ogni epoca, della fisiologica dialettica dell’artista con l’arte dei suoi contemporanei e con quella dei maestri del passato prossimo e remoto.
La mostra, curata dal già citato Achille Bonito Oliva, può essere vista giornalmente – tranne i lunedì – dalle 10 alle13,30 e dalle 16 alle 19,30. L’ingresso è a pagamento (5 Euro). 
  
Salvo Ferlito - febbraio 2014
   
 
  
ANTONINO  NACCI
Antologica
Artifex ludens
  
Una formica rituale, in cerca di una meta, segue paziente una scia silenziosa; forme antropomorfe e consapevoli si attraggono tra terra e cielo, librandosi dentro un’atmosfera indefinita; pesci-ictys guizzano, volando su onde zigzaganti; lucertole, cavalli, meduse e strani vegetali marcano la loro presenza all’interno di strisce verticalizzanti, di spazi impossibili…Poi ancora segni – tanti segni – incidono la materia: sfere, triangoli, quadrati, spirali, frecce, lettere dell’alfabeto, falci di lune ed ogni sorta di graffito. Nel mondo di Antonino Nacci, una miriade di elementi abitano i luoghi. Sono presenze dinamiche, sfuggenti, ripetute, organizzate; contras- segnano un territorio psicologico e si configurano come rappresentazioni ludiche di un codice-concetto già strutturato.
   
   Nacci ama i colori della terra e li recupera nella porosità della sabbia. Stende con delicatezza il materiale mischiandolo alla colla vinilica e incidendolo con tratto sicuro. Pur non descrivendo la bellezza, ciò che costruisce è bello, ponderato. La sua pittura, lucida e controllata, esprime una grande forza comunicativa attraverso una tavolozza apparentemente povera ma ricca di variazioni tonali.

 

   La mostra di Nacci – in un viaggio che guarda oltre – dialoga con segni e forme che si muovono in spazi  ben definiti e diversamente colorati, che hanno la capacità insita di descrivere, stimolare ed evocare, incuneandosi tra delicati cromatismi tonali e rese materiche. Il suo mondo, è un Caos-Logos irrazionale ma determinato in cui gli elementi ritmati esprimono la ricchezza interiore nel modo di relazionarsi più che nel loro valore unico.
  
   L’operare giocoso di Antonino Nacci – homo faber - delinea una tabula atemporale e adimensionale che imprime allo spettatore una irresistibile componente emozionale e attrattiva, un’estetica fantastica e dinamica dentro la quale, come sosteneva il fisico Gert Eilenberger – “la combinazione armonica di ordine e disordine riconduce, in natura, al senso della bellezza…” L’apparente confusione generata da segni e forme è controbilanciata da precisi ritmi vettoriali che incanalano i flussi di elementi all’interno di scie sinuose o di spazi ben delimitati e caratterizzati che a loro volta sfociano in veri e propri cartigli ideo-grammatici o determinano elementi pitto-formali. In un tutt’uno, il piano strutturale gioca con le stratificazioni della materia sabbiosa creando un “progresso materico” di opera in opera, dalla forte carica immaginativa.
  
   In questo contesto, Antonino Nacci, pur avendo chiara una visione culturale sui fatti storici e sul quotidiano, propone un mondo “leggero”, privo di tensioni fisiche e gravitazionali, dove le “famiglie di elementi” sono organizzate e perfettamente riconoscibili. La tessitura di equilibri spaziali, se letta in chiave puramente decorativa, può trarre in inganno. La sua, in realtà, è una tabula viva, luogo degli eventi (per dirla con Pollock) e possiede una vita autonoma. In essa i segni-forma vanno considerati inseparabili rispetto alla resa calligrafica, ai materiali adoperati e al formato che li supporta.

 

   Nacci, non intende raccontare ma lasciare tracce, suscitare interrogativi. Nelle sabbie il gioco comunicativo – tra incanto e disincanto - è assai delicato. Qui l’artista propone un attento bilanciamento di pesi e contrappesi, alternando il prima e il dopo temporale, il qui e l’altrove fisico, il piccolo e il grande dimensionale, relazionandosi simbioticamente con il suo aspetto psichico e umorale. E’ in questa fase che Nacci – artifex ludens - indaga il quotidiano con ironia e saggezza, analizzandone eventi ed avvenimenti dinamici (panta rei), una realtà reinterpretata, riscritta, rimodulata e convertita in colori armonici e rese di materia ben calibrate, una rivisitazione dolce e poetica che esprime il senso della vita tout court.

 

   Le opere di Nacci, in sostanza, denotano una simbiosi totale con la materia. Sia che la incida, la buchi, la bruci o la ricucia - assemblandola, evidenziandola, nascondendola o, addirittura, rinnegandola - il suo operare è decisamente attuale e contemporaneo.
   In una realtà che sta profondamente cambiando intende assolutamente orientarsi. Le sue opere appaiono come mappe concettuali, luoghi esplorati e misurati, controllati e calibrati in cui i fatti sono meticolosamente appuntati. Piccole magie che evocano ricordi lontani, che emozionano.

 

   A metà degli anni Ottanta le sue pagine esistenziali subiranno una chiara evoluzione. La visione del mondo diventerà sempre più fluttuante ed onirica. Cominceranno così le descrizioni di mondi arcani e sconosciuti, di realtà complicate e sempre più frenetiche dove gli elementi anzidetti si misureranno, adesso, con un quotidiano che sembra irriconoscibile. Nacci, nella sua ultima produzione introdurrà il rosso ed il nero sui toni sabbiati, evidenziando la sua crisi personale e quel senso di disagio a cui il mondo sta andando incontro, ma lo farà sempre con stile e riservatezza, in punta di piedi. Il suo linguaggio, senza barriere territoriali, non conoscerà la globalizzazione del Duemila, ma la descriverà ugualmente.

 

Palermo, 19 aprile 2012
Fabrizio Costanzo
   
 
 
Paolo Madonia
"Aspettando Caronte"
 
IL LAICO ALCHIMISTA

 

<<Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma>>. Questo lapidario e fulminante assunto di Antoine Lavoisier, su cui è basato integralmente il pensiero chimico-fisico degli ultimi due secoli (e, in senso più lato, qualsiasi approccio razionale all’interpretazione del “continuum” fenomenico nel quale siamo immersi), pare attagliarsi a perfezione all’ideare e fare artistici di Paolo Madonia.
Il peculiare “agire alchemico” che ne contraddistingue il gesto, infatti, è del tutto imprescindibile da quella coscienza (e conoscenza) dell’insieme dei principi di obbligata “causalità” che regolano il mondo, in virtù dei quali ciò che è in semplice potenza – nello specifico il pensiero artistico – può divenire fattivamente attuale – quindi opera d’arte in sé compiuta – solo in presenza d’un calibrato e deterministico intervento di “trasmutazione” della materia.
L’ottemperanza “termodinamica” all’impeto del fuoco – strumento elettivo adottato dal nostro Paolo –, pur nell’ineluttabilità “entropica” indotta da una naturale “alea”, non sfugge però mai – come già detto più volte in passato – ad una controllata “induzione metamorfica”, garantendo – per tanto – una congrua “manipolazione” della materia pittorica, tale da far cristallizzare l’idea guida in un amalgama ben combusto di pigmenti, dotati d’un valore aggiunto di carattere emotivo ed affettivo che travalica la mera sommatoria “stechiometrica” dei reagenti base. Nessun aspetto presuntamene “creativo”, nessun atteggiamento mistericamente “sciamanico” – dunque – nell’operato artistico di Paolo Madonia (e questo, nonostante la valenza assai simbolica ed evocativa del ricorso al fuoco), ma piuttosto l’accorta consapevolezza d’un dovuto itinerario empirico, il cui carattere fondante consiste propriamente nell’esplorazione e nella conseguente applicazione di tutte quelle norme che disciplinano ferreamente il kosmos, senza che ciò comporti in alcun modo il ricorso al “movente” dell’irruzione d’una qualsivoglia ed ineffabile dimensione trascendente nei precisi perimetri di quella contingente.
La profonda “complessità” che intride e connota i dipinti di Madonia, ad onta di quella suadente semplificazione coloristica cui la mediazione pirica dà luogo, altro non è – quindi – che puntuale riflesso dell’altrettanto complessa articolazione dei “debita principia” che governano “omeostaticamente” l’universo, e – in definitiva – di quella “necessità di fondo” (che pure non rinnega il “caso”) la quale eternamente determina e alimenta la “physis” in tutte le sue componenti spaziali e temporali, nonché organiche ed inorganiche.

 

Non tragga, dunque, in inganno l’aspetto parventemente gestuale della pittura del nostro Paolo (solo superficialmente riconducibile nell’alveo d’un incontrollato ed automatico “furor” espressionista), poiché – nei fatti – è da escludersi qualsiasi cenno di trance “dionisiaca” (che faccia, per l’appunto, dell’artista un “entusiastico” recettore contingente di spunti ed influssi provenienti da un altrove trascendente), prevalendo – viceversa – un pausato e cogitato “modus pingendi”, che prevede – scientemente – l’ultrafiltrazione “piroclastica” del dato meramente ottico in funzione d’un ricercato ed auspicato effetto visuale. Non naturalistiche vedute – quelle cui perviene in tal modo Madonia –, ma compiute visioni dei soggetti inquadrati, le quali si compongono sulla dura superficie lignea attraverso un procedimento selettivo che nel fuoco ha il mezzo adeguato alla rimozione d’ogni inutile orpello visivo e descrittivo. Proprio l’esibita predilezione per il tema paesaggistico – ove abitualmente prevale il connotato sensoriale e percettivo – dà l’esatta misura della capacità del Nostro di travalicare gli steccati dell’obbligata fedeltà al vero naturale, procedendo invece nella direzione d’uno sfrondamento anti-veristico, operato – col sagace ausilio dell’alchimia pirica – in termini di raffinamento progressivo d’ogni leziosità di carattere formale, fino all’ottenimento d’un puro condensato di estrema intensità visionaria e fabulistica.
Matericamente cagliato sui supporti a mo’ di lavico residuo, il colore diviene vessillifero della profonda interazione dell’autore con il territorio avito (l’area dello Jato, di cui Paolo è originario), sì da restituirne non tanto il dettaglio topografico – come tipico di tanta tradizione pittorica insulare –, quanto piuttosto l’intima essenza di luogo carico di memoria e di risvolti esperienziali. L’ossessività – alla Monet – con la quale l’artista jatino si è ripetutamente soffermato su alcune immagini “topiche” – il monte Jato, le plaghe circostanti, l’andamento circadiano delle luci e delle ombre, i tipici fenomeni atmosferici – costituisce, per tanto, la riprova più evidente di quanto fin qui detto, ovvero dell’irrefrenabile “pulsione” a trasmutare la mera oggettività del “visus” nell’assoluta soggettività d’un elaborato connesso a vissuti intrapsichici. Non può, dunque, stupire che in quest’ultima produzione pittorica del nostro autore – non per nulla intitolata Aspettando Caronte, per via di problemi legati alla salute – il contesto paesaggistico si faccia peculiarmente carico di intimi umori, emozioni e stati psichici, divenendo il riflesso puntuale d’una “saturnina” condizione esistenziale, restituita agli osservatori con una accentuazione della misura e del rigore degli impianti coloristici e degli assetti compositivi. Laddove, infatti, in precedenza, si riscontrava il prevalere d’una tavolozza “squillante” ed “estroflessa” – in cui i garruli gialli, le brillanti azzurrità e i rossi incandescenti erano i vettori prioritari del “mood” del pittore –, adesso, viceversa, si assiste a un incremento della tendenza a più marcate articolazioni binarie dei colori (fino a giungere, non di rado, alla monocromia completa), ove le tinte prescelte – i bianchi tonali, i neri catramosi, i bruni addensati – e la spoglia modalità delle composizioni si fanno ideale strumento di rappresentazione dei timori e dei rovelli annidati nella psiche del pittore. E tutto ciò – bisogna sottolinearlo – senza mai cedere all’escamotage “intellettualistico” dei cosiddetti automatismi psichici di natura inconscia (pura invenzione dell’avanguardia surrealista della prima metà del ‘900), ma con un ben ponderato andamento immaginifico, che trova la “catarsi” nella piena consapevolezza d’un agire derivante da premesse ideative di estrema forza e gran lucidità.
Nessun pensiero incontrollato e tumultuoso, nessun gesto irruente e scomposto, per tanto, nel fare artistico del nostro Paolo, né, parimenti, alcuna ottemperanza al luogo comune – purtroppo inveterato – dell’artista tutto genio e sregolatezza, che opera “sacralmente” in preda a un “daimon” violento e sovrastante. Piuttosto – si parva licet – il percorso assai coerente d’un pittore del tutto cosciente del gravame culturale della propria attività, il quale, trasformando “alchemicamente” la materia impalpabile delle idee e dei sentimenti nella concretezza combusta e materica d’un compiuto precipitato di colori, si erge a valido esempio d’un approccio laicamente consapevole alle alle arti visuali, e – in definitiva – all’intera problematica del vivere ed esistere.
<<Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma>>.
 (ottobre 2010)

                                                                                                                 

 
 

 
IL 700 RITROVATO A PALAZZO SANT’ELIA
UNA ARTICOLATA MOSTRA DI DIPINTI, ARREDI E SUPPELLETTILI, IN GRADO DI RICOSTRUIRE FEDELMENTE LA TEMPERIE DI QUELL’EPOCA E DI FORNIRE NON POCHI SPUNTI DI RIFLESSIONE ANCHE SU MOLTI ASPETTI DELLA SICILIA D’OGGI
<<…Una mostra dai molti meriti – bisogna renderne atto al curatore Vincenzo Abbate –, innanzitutto perché scientificamente rigorosa ed in grado di offrire una completa sinossi dell’arte insulare del ‘600 (e quindi di consentire ai visitatori un’adeguata ricostruzione della temperie artistica dell’epoca), secondariamente perché restituisce alla cittadinanza un bene abitualmente sottrattole in quanto relegato nei depositi di Palazzo Abatellis, ed infine perché dà al recuperato Palazzo Belmonte Riso una qualificante dignità di spazio espositivo (peraltro fornendo una esauriente idea delle quadrerie nobiliari di quel tempo)…>>
Pur non amando le autocitazioni, mi è sembrato assolutamente opportuno iniziare quest’articolo sull’attuale mostra a Palazzo Sant’Elia con lo stralcio di una mia recensione risalente a sabato 10 marzo 2001 (pubblicata dal quotidiano L’ORA) che riguardava l’esposizione a Palazzo Belmonte Riso (oggi discutibile sede di un neonato museo di arte contemporanea) di quaranta splendide tele del ‘600, a tutt’ora in gran parte “invisibili” poiché in attesa dell’ormai “mitico” allargamento della Galleria Regionale di Sicilia. “Mutatis mutandis”, a distanza di quasi dieci anni ci si ritrova in una situazione analoga, però con dipinti, arredi e suppellettili del ‘700, provenienti ancora una volta da Palazzo Abatellis ed in cerca di stabile “dimora”. Non è un caso, per tanto, che proprio Vincenzo Abbate – già direttore di Palazzo Abatellis e anche oggi fra i curatori di questa mostra a Sant’Elia – così abbia concluso il suo saggio in catalogo <<…Oggi che la collezione di dipinti del Settecento va in mostra a Palazzo Santa Croce-Sant’Elia, riproponendo il miracolo di stretta simbiosi tra contenuto e contenitore mirabilmente proposta per il Quattro ed il Cinquecento da Scarpa e da Vigni nel ’54 a Palazzo Abatellis, speriamo nella maturazione delle coscienze ai livelli più vari, perché un patrimonio d’arte e cultura d’inestimabile valenza e bellezza possa essere finalmente e permanentemente goduto da tutti…>>
In buona sostanza, trascorrono gli anni (o, più propriamente, i decenni) e qui in Sicilia si riparte sempre dallo stesso punto, ovvero da problemi non risolti e comunque affrontati con estemporanee soluzioni tampone, ben lontane da approdi certi e definitivi.
Se è vero che iniziative come quella promossa dalla Provincia Regionale di Palermo vanno senza dubbio plaudite e prese a modello, in quanto indicative della possibilità di fare cultura a livelli assai elevati senza dover ricorrere a roboanti “eventi” importati (ad alti costi) da fuori e soprattutto perché esemplificative della inderogabile necessità di valorizzare lo sterminato patrimonio storico-artistico insulare, è anche vero (e assai auspicabile) che la stretta sinergia fra le nostre pubbliche amministrazioni debba andare ben al di là di singoli e sporadici casi, divenendo una abitudine costante ed un obiettivo cui mirare stabilmente al fine di consentire il recupero completo e la totale fruizione (anche in termini di sviluppo turistico e conseguentemente economico) dei nostri splendidi beni culturali.
In tal senso, questa mostra sul Settecento siciliano si pone come paradigma ineludibile, sul quale è d’obbligo riflettere in vista d’un radicale cambiamento di rotta nella gestione delle politiche culturali. Fare venire lo Hermitage si San Pietroburgo (tanto per fare un esempio calzante), con un dispendio di energie e denari non indifferente (come accaduto durante la precedente amministrazione provinciale) è infatti un tipico assurdo senza alcun significato (che non sia la consueta manovra propagandistica che vada a vantaggio dei soliti “noti”), quando viceversa si può attingere ad opere d’arte (e in più d’un caso anche capolavori) che non provengano da altre latitudini, ma che si possano facilmente reperire in ben più prossimi depositi museali, dislocati a pochi chilometri o addirittura soltanto a qualche centinaio di metri.
La puntuale ricostruzione della temperie artistica (e con essa della situazione storica, economica e socio-culturale) della Sicilia del ‘700, dimostra con chiarezza inoppugnabile la rilevanza di operazioni che consentano (agli stessi siciliani “in primis”) una approfondita conoscenza del passato, sì da poter advenire ad una maggiore consapevolezza del presente. Poco importa, per tanto, che in questo allestimento non vi siano capolavori all’altezza delle più elevate espressioni delle arti europee ed italiane del periodo in esame (niente, per intenderci, che possa essere affiancato ai raggiungimenti di un Hogarth, di un Watteau di uno Chardin, di un Goya o di un Tiepolo o di un Longhi o ancora di un Ceruti, di un Magnasco di un Crespi o di un Fra Galgario, tanto per fare qualche esempio illuminante) e che, non a caso, alcuni dei dipinti migliori in esposizione siano riconducibili alla tradizione ritrattistica d’oltralpe (per mano di artisti non siciliani, formatisi alla luce dei “galanti” modelli francesi di Nattier o di quelli di morbida eleganza neo-classicheggiante della tedesca Kauffman); poco importa, quindi, che la maggior parte delle opere in mostra sia costituita (eccezion fatta per un bellissimo dipinto del Solimena, indicativo della qualità della pittura campana fra Sei- e Settecento) da oneste espressioni di “genere” (per lo più di mano siciliana, ma anche peninsulare ed europea), perché ciò non inficia in alcun modo la qualità dell’iniziativa, confermando piuttosto la molteplicità di informazioni e di spunti di riflessione che anche un’esposizione senza “squilli” (ma di precisa ricostruzione storico-artistica) può offrire ai visitatori. Anzi, ai fini della migliore comprensione di ciò che è stata la Sicilia di quei tempi e degli influssi (spesso nefasti) che essa ha trasmesso alla posterità (e quindi ai siciliani di oggi), molte delle opere esposte (a partire dai bellissimi collages che effigiano alcuni dei nobili più in vista dell’epoca o da certi arcigni e sprezzanti ritratti di aristocratici autoctoni o ancora da tanta pittura di carattere sacro o infine dagli spettacolari e ricchissimi arredi) appaiono d’una puntualità e d’una dovizia talmente inappuntabili, da consentire una serie di accurate riflessioni sul perché in Sicilia sia sviluppato e radicato un assai malinteso senso della “signorilità” basato sull’oppressione delle masse (quello per cui ancor oggi molti esponenti della media ed alta borghesia insulare rivendicano una presunta discendenza nobiliare, magari anche da serve e contadine sottoposte al giogo aristocratico, quale unico accredito di raggiunta emancipazione ed elevazione sociale) e conseguentemente sui motivi dell’allignamento di un sistema di caste di tipo “indiano” (oggidì non dichiarato ma altrettanto forte e insormontabile), o sulle ragioni del permanere di forme di religiosità superstiziosa e conformistica (improntate al completo appiattimento su un clericalismo acritico e non di rado di totale convenienza), o ancora sulla totale refrattarietà a modelli di pensiero di matrice illuministica (non si dimentichi a tal proposito la netta opposizione baronale a qualsiasi riforma “illuminata” con la quale dovette scontrarsi il vicerè Caracciolo) che è a tutt’oggi assai diffusa in terra di Sicilia.
Non è certo compito di mostre di tal fatta (regolate da un assoluto e valente rigore storiografico) alimentare deduzioni o ipotesi di tipo fantastorico, e tuttavia, procedendo con modalità di rovesciamento del dato storico nel suo possibile opposto speculare, proprio una esposizione come quella sul “700 Ritrovato” può consentire di capire cosa sarebbe stato della Sicilia se le cose fossero andate differentemente e come sarebbero attualmente i siciliani qualora in certi momenti avessero avuto più forza e più coraggio.
Se la rivoluzione giacobina napoletana fosse giunta anche nella nostra isola (magari portando all’arresto di Ferdinando di Borbone e della consorte Carolina d’Asburgo, o meglio ancora alzando qualche “salutare” e “disinfettante” ghigliottina), se i francesi di Bonaparte – benchè esercito invasore – fossero riusciti a sbarcare pure da noi (sciogliendo un po’ di parassitari ordini religiosi e confiscando beni ecclesiastici basati su decime e gabelle) o se, più semplicemente e meno cruentemente, ci fosse stata una diffusione di scritti e pamphlet contro il potere regale e aristocratico analoga a quella verificatasi in Francia nella stessa epoca, probabilmente le cose sarebbero andate in maniera assai diversa. Forse non vivremmo nel “migliore dei mondi possibili” (per citare la “coeva” messa alla berlina del pensiero di Leibniz operata da Voltaire nel suo “Candido”), ma sicuramente ci ritroveremmo in un contesto più civile, meno “mafioso” (essendo la mafia uno dei portati della difesa dei privilegi baronali e di quella struttura feudale perpetuatasi in Sicilia fino alla metà del ‘900), culturalmente più avanzato e politicamente meno codino e reazionario (come purtroppo dimostrano gli abituali orientamenti del popolo siciliano ad ogni tornata elettorale, tradizionalmente improntati al classico e intramontabile “megghiu u tintu canusciutu ca u bonu a canuscirsi”). 
     
 
 

 

ESPANA 1957-2007

CINQUANT’ANNI DI ARTE SPAGNOLA A PALAZZO SANT’ELIA


“Rara avis”; non si può definire altrimenti una grande mostra istituzionale – allestita nella nostra città – che non si presti a critiche negative o a pesanti stroncature.

Caso assolutamente raro, dunque, soprattutto quando si tratti di una esposizione patrocinata (e lautamente finanziata) dalla Provincia Regionale di Palermo, pubblica amministrazione che non si è certo distinta – in questi ultimi anni – per una oculata e ben mirata gestione delle politiche culturali (e in particolare dei “grandi”, o presunti e millantati tali, eventi espositivi).

Dopo una serie di inaugurazioni più di facciata che sostanziali, e l’invocazione-evocazione di svariati e altisonanti “mallevadori culturali” (il Guggenheim, l’Hermitage), finalmente Palazzo Sant’Elia si presenta nella sua veste definitiva di appropriato e qualitativo contenitore-spazio espositivo, con un’importante mostra il cui significativo rilievo è attestato non solo dall’incontestabile valore degli artisti partecipanti, ma anche dai congrui e pertinenti criteri espositivi adottati dal curatore (Demetrio Paparoni) e da chi lo ha coadiuvato.

“Espana (Arte Spagnola 1957-2007)”, infatti, non è una semplice raccolta di belle opere d’arte, realizzate da autori dai nomi più o meno altisonanti; ma è piuttosto un’accurata e puntuale panoramica sulle arti visive iberiche degli ultimi cinquant’anni, in grado di ricostruire le vicende artistiche ispaniche del secondo ‘900, con una dovizia tale da offrire ai visitatori un’occasione di fruizione di notevole spessore estetico e culturale.

Non è un caso, per tanto, che nessuna enfatizzazione sia stata posta sulle principali  vedettes di questo allestimento (Picasso, Mirò, Dalì,  Tàpies), e che invece le loro mirabili opere siano state integrate, quali semplici (seppur determinanti) tessere, all’interno d’un ben equilibrato mosaico visuale, capace di porre in evidenza non soltanto il valore assoluto dei singoli protagonisti, ma anche i rapporti dialettici intercorrenti fra artisti di diverse generazioni, nonché l’ineludibile peso giocato sul loro agire dalla grande tradizione del passato.

Proprio l’imprescindibilità dalla “lectio magistralis” dei grandi autori dell’arte ispanica dei secoli trascorsi costituisce uno dei caratteri fondanti dell’ideazione e del conseguente gesto di più d’uno degli artisti presenti in questa mostra; e ciò a conferma dell’inesistenza di cesure radicali rispetto ai linguaggi dei predecessori, anche laddove i nuovi lessici paiono (o sembrarono) improntati a criteri programmaticamente ed esibitamene avanguardistici. Ecco, allora, l’Equipo Cronica riallacciarsi con estrema naturalità alle Meninas di Velazquez, in una rivisitazione che (lungi dal voler essere superficiale o irriguardosa nella sua ambientazione Pop e piccolo borghese, e nel suo fumettistico adeguamento all’attualità dei tempi, il 1970), anziché rivelarne l’obsolescenza, ne rafforza viceversa l’intonsa validità di icona assoluta e senza tempo. Analogamente, i personaggi di cui è artefice Enrique Marty, da Pepe y Luis (del 2006) a Getsemani/Violeta (del 2007), ripropongono sia quello spirito picaresco che quel truculento senso dell’orrido tipici del pensiero estetico e religioso degli spagnoli  e presenti nelle arti ispaniche dal cupo e controriformato “Siglo de oro” (si pensi allo Storpio o all’Apollo e Marsia o ancora al Tizio del Ribera) fino alle impietose e irriverenti declinazioni cinematografiche di Bunuel, operandone una congrua riverberazione nella contemporaneità di non inferiore pregnanza ottica e di altrettanta ferocia narrativa.

E proprio i sentimenti del pathos e del dramma, intesi come inevitabili categorie fondanti e costitutive dell’esistenza, paiono indicare quel prioritario filo conduttore e quella sostanziale tramatura della produzione artistica iberica del secondo Novecento, in grado di legare l’arte del passato con quella del presente, nonché di rappresentare una sorta di “specifico antropologico” per gran parte degli artisti spagnoli, sì da offrire una significativa chiave di lettura con la quale interpretare le tante opere che caratterizzano quest’allestimento.

Dalle grottesche figure abbozzate con inquietante e sintetica gestualità da Antonio Saura (una per tutte quella della Crucifixion del 1959, anch’essa richiamantesi ai pregressi “topoi” di Goya e di Dalì) agli alienati personaggi plasticati da Juan Munoz e da Bernardi Roig (autentiche icone della condizione di non sense e solitudine che attanaglia gli uomini di oggi), dall’informalità emozionale e polimaterica di Manolo Millares (così pregna di echi e suggestioni promananti dall’opera di Burri) all’inquietante gestualità ideografica di Antoni Tàpies (ove gli influssi dell’Espressionismo astratto si inscrivono in una griglia estetica di misurata ed elegante teatralità), è infatti tutto un susseguirsi di traduzioni visuali ad alta termica affettiva, nelle quali si realizza l’ineffabile equilibrio fra il portato del retaggio culturale della “hispanidad”, le urgenze d’espressione strettamente personali e le ovvie istanze di un interscambio lessicale con gli artisti del mondo circostante.

In tal senso, la mostra di Palazzo Sant’Elia si pone come un paradigma assai valido (ed imperdibile soprattutto per i nostri artisti più giovani), in quanto ampiamente dimostrativo della qualitativa possibilità di coniugare la sfera più specifica dell’individualità (con tutto il peso dei vissuti psico-socio-antropologici di cui è gravata) con quella più estensiva e meno personalizzante degli orientamenti e delle mode vigenti nello scenario artistico internazionale.

Un dato sul quale sarebbe d’uopo meditare lungamente, in considerazione dell’incessante “pompaggio mediatico” di quanto ascritto (e ascrivibile) al fin troppo mitizzato novero della spersonalizzante globalizzazione, e massimamente in riferimento all’ostentato spregio cui è spesso soggetta ogni connotazione riconducibile a ben circoscritte, riconoscibili e non omologabili peculiarità.  

 

 
 
 

 

L’HERMITAGE DELLO ZAR NICOLA I

UNA MOSTRA CHE CONFERMA I SOLITI INTERROGATIVI SULLE POLITICHE CULTURALI


 
Al cospetto di mostre che annoverano autentici capolavori, si è spesso indotti a un compulsivo approccio passionale, tendente a privilegiare il godimento estetico a dispetto d’ogni altra considerazione. Tuttavia, abdicare agli obblighi d’una debita valutazione razionale, poiché “offuscati” dall’oggettiva bellezza e dall’inoppugnabile monumentalità storico-artistica delle opere d’arte in esposizione, può rivelarsi una “svista” assai grave, soprattutto quando si tratti di “eventi” promossi da pubbliche istituzioni e che quindi comportino un notevole esborso di denaro della collettività.
E’ propriamente il caso della mostra L’Hermitage dello zar Nicola I (capolavori acquisiti in Italia), allestita a Palazzo Sant’Elia (fino al 4 maggio) con il patrocinio e il pieno impegno della Provincia Regionale di Palermo.
La significativa selezione di dipinti e di sculture collezionati dallo zar Nicola I (e qui esposti) include in effetti svariati tesori artistici d’assoluto valore e di indiscussa rilevanza, del tutto meritevoli d’essere goduti ed ammirati attentamente, senza però mai omettere quella giusta riflessione, “cum grano salis”, che impone una tale operazione.
Basti qui ricordare l’articolata statuaria del Canova (in primis l’inquietante e neo-ellenistica Testa del Genio della Morte) o le esemplari tele di Luca Giordano (un San Francesco ascetico e sofferente ancora intriso di echi ribereschi), di Andrea Vaccaro (un’estatica Maddalena penitente nella quale si riverbera l’influsso esercitato sulla pittura napoletana del ‘600 dal montante classicismo di matrice bolognese) e soprattutto del sommo Tiziano (una delle repliche del Ritratto di Paolo III Farnese, impareggiabile nella sua misurata eleganza coloristica e nel suo estremo scandaglio psicologico), per comprendere lo “spessore” e il “peso specifico” di ciò che è pervenuto dal noto museo russo al fine
d’essere esposto nel recuperato gioiello architettonico del ‘700 palermitano. E ciò non di meno, pur valutando congruamente lo splendore delle opere e pur considerando la giusta intenzione della Provincia di Palermo di inaugurare al meglio questo nuovo spazio espositivo cittadino, non si può non manifestare qualche perplessità rispetto ad una iniziativa che rischia di apparire più di facciata che di concreta ed effettiva sostanza. Il contenitore Palazzo Sant’Elia non ha infatti alcun bisogno di essere “nobilitato” da un prodotto “preconfezionato” (seppure, come detto, di grande qualità) che porti un “marchio” illustre (prima si era tentato con il Guggenheim, poi si è andati a parare a San Pietroburgo), “abilitato” a fare da garante e da richiamo (o da specchietto per le allodole) per una cittadinanza sovente assai distratta e disinteressata alle vicende culturali e per di più quasi del tutto ignara o dimentica dei tanti e splendidi musei locali. Proprio la Maddalena penitente del Vaccaro (di cui esiste una analoga e negletta versione nei depositi di Palazzo Abatellis) spinge ad una obbligata ed ennesima riflessione sulla connaturata tendenza delle nostre istituzioni a non cooperare fra di loro per una completa valorizzazione del patrimonio storico-artistico insulare, preferendo piuttosto privilegiare operazioni di “marketing” culturale totalmente rivolte verso soggetti esteri e tendenti inoltre a favorire in maniera esclusiva e blindata ben determinate e note organizzazioni.
Perché infatti fare venire per un breve lasso di tempo delle pur insigni opere d’arte da un’altra nazione (per altro esponendole a tutti i rischi insiti nel trasporto), quando invece si potrebbe trasformare il Sant’Elia in un polo museale permanente, capace di divenire un effettivo e costante punto di riferimento per i cittadini e soprattutto per i turisti?
Perché non è possibile attuare un’intelligente sinergia fra l’amministrazione provinciale e quella regionale al fine di recuperare la spettacolare quadreria del ‘600 che si trova “custodita” (ovvero nascosta) nei depositi dell’Abatellis, collocandola infine in un contesto filologicamente pertinente quale è un palazzo aristocratico del tardo-Barocco come il restaurato Sant’Elia?
Perché dunque spendere soldi dei contribuenti per delle manifestazioni “effimere”, rincorrendo l’assurda politica dell’ “evento” culturale (nella nostra città fin troppo tristemente in voga) che tende a trasformare la fruizione delle opere d’arte in una sorta di “obbligo modaiolo”, quando al contrario queste risorse potrebbero essere indirizzate vero esiti e soluzioni più definitivi?
E perché, infine, assemblare confusamente delle mostre che fra loro non hanno nulla in comune, affiancando ai capolavori dell’Hermitage una serie di dipinti contemporanei dedicati al “mare nostrum”, in una sorta di moltiplicazione miracolistico-fieristica dell’offerta “culturale”? L’indubbia qualità di molte delle opere ispirate al Mediterraneo (per altro, in più d’un caso, di riconosciuti maestri) non riscatta minimamente il criterio della loro esposizione da un penalizzante e mortificante caos visuale, più tipico – per l’appunto – di una fiera itinerante che di un allestimento degno di tal nome. Se proprio non si poteva fare a meno anche di questa mostra, perché allora non allestirla dopo la chiusura di quella dell’Hermitage, sì da consentire una più qualificata dislocazione delle opere ed una migliore fruizione delle stesse da parte dei visitatori?
Al solito “uovo oggi”, una volta tanto, non sarebbe stato meglio preferire la “gallina domani”?

 

 

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