PEDRO  CANO
 
Venerdì 25 Novembre alle ore 11.30 Pedro Cano incontrerà presso
la Galleria Elle Arte i giornalisti per la presentazione alla stampa della Mostra:
 
“DEL  JARDIN  Y  DEL  HUERTO”
che sarà inaugurata lo stesso giorno
alle ore 18.
Pedro Cano, uno dei maestri dell’acquerello della scena internazionale, alla Galleria Elle Arte di Palermo da Venerdì  25 Novembre 2005 al 14 Gennaio 2006.
 
Per la quarta volta, nell’arco di oltre vent’anni, Cano ritorna a Palermo dopo la recente mostra tenutasi nel Gennaio del 2005  al Loggiato San Bartolomeo  con il ciclo di acquarelli ispirati al romanzo “Le città invisibili” di Italo Calvino.
 
La mostra “ Del jardin y del huerto”  raccoglie quarantaquattro acquarelli che ritraggono fiori, frutti e giardini del Sud.
Cano dipinge melagrane, rose, limoni, bouganvillee, fichidindia… ed ancora suggestivi angoli di orti e giardini, donando loro una nuova vita, una inedita consistenza.
La carta, spessa e morbida, perde la sua usuale freddezza materica per trasformarsi in calda superficie da cui emergono, quasi si trattasse di un affresco, forme e colori che narrano atmosfere mediterranee.
Nessun foglio, è mai uguale ad un altro, così come mai nessun melograno o frutto o fiore ha un suo gemello.
I soggetti, sebbene all’ apparenza comuni, assurgono a modelli dal fascino ineguagliabile.
Come ha giustamente affermato Antonio Natali, direttore del dipartimento dell’Arte Contemporanea della Galleria degli Uffizi, “Il frutto non è più l’oggetto appeso ad un ramo […] ma riverbero di sensazioni…Niente di più lontano da quello che siamo avvezzi a chiamar  “nature morte”. Che già di per sé non è buon titolo e che certo, al cospetto, della vitalità degli affetti promananti dalle carte di Pedro, suona del tutto impertinente”.
 
Cano trasmette alle sue opere le sensazioni e le atmosfere da lui vissute durante i numerosi viaggi che ha  compiuto negli anni e a cui si dedica con passione errabonda.
Artista ormai riconosciuto ed affermato nel panorama artistico internazionale, Cano, ha esposto in tutto il mondo, curando, tra l’altro, anche le scenografie di alcune opere teatrali.
Il regista Giulio Berruti gli ha dedicato un documentario: “Pedro Cano. La mia voce” vincitore della Rassegna Documentaria sull’arte del Festival di Palazzo Venez
Pedro Cano è nato nell’agosto del 1944 a Blanca, una piccola cittadina della provincia spagnola di Murcia. Ha studiato prima all’Accademia San Fernando di Madrid e successivamente all’Accademia delle Belle Arti Spagnola di Roma, dove è stato vincitore dell’importante “Prix de Rome”.
Ha vissuto in Spagna, America Latina e Stati Uniti, e risiede spesso ad Anguillara, una piccola cittadina a 30 chilometri da Roma di cui è stato nominato cittadino onorario.
E’ membro dell’Accademia Real di Belle Arti di Santa Maria Arrixaca ed è stato insignito dal re Juan Carlos dell’Encomienda de l’Orden de Isabella Cattolica.
Vive tra Roma, Anguillara e Blanca.
 
L’artista sarà presente alla mostra  venerdì 25 e sabato 26 novembre.
Ingresso libero
 
 
 
 
 
 
Orari 10-12.30/17-19.30 Chiuso il Lunedì Mattina e i Festivi.
Per informazioni tel./fax 091-6114182.


MILVIA  SEIDITA

 

Nuvole di libertà

 

Il lene liquefarsi dei colori sulla carta ben si attaglia all’imponderabile andamento degli stati d’animo.
Proprio per quella immediatezza esecutiva che lo caratterizza (e che non consente significative “varianti in corso d’opera”), l’acquarello è infatti fra le tecniche pittoriche maggiormente atte alla repentina traduzione di quegli umori assai profondi che, percorrendo i riposti ed imperscrutabili sentieri della psiche, tendono ad alimentare una ideazione oscillante fra declinazioni formali pausate ed introspettive e più nevrili e turbolente trascrizioni emozionali.
Non è per tanto un caso – e le gouaches di Milvia Seidita ne sono una riprova inoppugnabile –, che l’orientamento prioritario di chi pratica “pittura ad acqua” inclini ancor oggi verso scelte lessicali di stampo paesaggistico, poiché massimamente nella dimensione del paesaggio, attraverso modalità di tipo proiettivo, si concreta la sottile alchimia del disvelamento puntuale d’ogni minimo scarto delle dinamiche affettive.
Il contesto naturale si fa dunque portavoce delle istanze e delle urgenze interiori dell’artista, esplicitandone talora le melancolie più o meno umbratili e liquorose e talaltra le aspirazioni libertarie alla fuga dal contingente o gli slanci sentimentali di stampo neo-romantico.
In tal senso, i delicati paesaggi della Seidita si configurano come una sorta di esibito libro aperto – pur nell’intimistica discrezione della misurata gamma cromatica –, capace di narrare con dovizia l’incedere alternato di emozioni, affetti e riflessioni.
La priorità assegnata alle marine – con una significativa orchestrazione di sottili tonalismi alla confluenza fra azzurrità celesti e acquose –, ma anche l’indagine condotta sull’andamento cirro-nembico che lambisce le alte cime, ed inoltre il ricorrere insistente di desolati spazi nordici (Paesaggio irlandese, Ghiacciai in Norvegia, Fiordi, Baltico) non sono che conferme di quanto testè detto: ovvero simboliche rappresentazioni di quella topografia interiore che si sostanzia di ripiegamenti introspettivi, esigenza di distacco dal reale e voglia di sconfinamento utopistico e libertario. La fuga delle nuvole nei vasti cieli nord-europei, col suo peculiare e freddo contrasto coi grigi e con gli azzurri atmosferici degli sfondi, si carica così d’una semantica intensa ed inequivoca, quasi a rimarcare il bisogno indifferibile d’un allontanamento – non solo figurato, visto che la Seidita ha lungamente viaggiato per quelle plaghe – dal mondo delle cose e delle relazioni forzate e formali, per accedere ad una condizione “altra” di distanza primariamente fisica, ma soprattutto psicologica, dall’incalzante e stringente quotidianità.
Poetica chiara e adamantina – questa della Seidita –, estrinsecata nella sua pienezza oscillando agevolmente fra permanenze nel naturalismo più esplicito e mimetico e dissoluzioni aeriformi e maculari di carattere informale, però sempre con la capacità di sfruttare al meglio il potenziale ottico insito nello strumento tecnico adottato.
Appartata in questa personale dimensione ideativa, ove paiono dominare incontrastate una acuta sensibilità ed una intensa empatia, identificandosi a pieno con l’oggetto visuale della sua ricerca ( cioè i contesti e gli scenari deputati alla rappresentazione del proprio io), Milvia Seidita ripropone in tal modo il completo ritorno alla pittura di paesaggio come pura espressione di soggettività.
Un narrarsi traslato per immagini che, esente da accanimenti o derive concettualistici (e quindi da qualsivoglia “scelta di campo” programmatica), la include in quel vasto novero di artisti post-moderni in grado a vario titolo di incarnare puntualmente le molteplici e difformi anime della contemporaneità.

 

 

MARTA CANNIZZARO

Re, Regine e…

La freschezza del tratto, la vivacità cromatica, la gioiosa scorrevolezza narrativa sono proprie d’una inventiva tipicamente giovanile. E tuttavia, le tavole illustrative realizzate da Marta Cannizzaro sono tutt’altro che un semplice “divertissement” tardo-adolescenziale scaturente da pulsioni ideative ancora acerbe e non mature. Esse infatti costituiscono la chiara testimonianza di una inventiva già temprata da qualitative influenze ambientali (ed anche genetiche, trattandosi della figlia d’una apprezzata pittrice) e soprattutto affinata dallo studio alla scuola di design di Milano, per la quale – esattamente per un esame – sono state concepite ed eseguite.

Si spiega probabilmente in questi termini – cioè alla luce d’un articolato magistero che si sostanzia di influssi familiari e scolastici e di altre proficue contaminazioni di svariata provenienza – il grado di raffinatezza visuale che contraddistingue queste opere, la cui briosità affabulativa rappresenta una congrua traduzione grafica delle atmosfere fiabesche de La principessa sul pisello.

Qualche tratto disneyano (sicuro indice di molte letture e visioni infantili), la semplicità compositiva e l’efficacia segnica che rimandano ad alcune soluzioni di Bozzetto e certe morbidezze cromatiche degne di Folòn confermano – una volta di più – come la ibridazione di influssi di origine svariata (super- e sub-liminali) sia alla base d’ogni fare artistico conscio e di valore, ribadendo quindi l’importanza d’un articolato iter di apprendistato visivo e culturale quale presupposto ineludibile per la giusta crescita di ciascun artista.

Già pienamente degne di esser pubblicate da qualche casa editrice come illustrazioni delle suddetta favola, queste tavole di Marta Cannizzaro annunciano dunque un talento grafico di sicuro spessore e attestano l’esigenza improcrastinabile di aprire sempre più gli spazi espositivi ai giovani capaci, sì da dare giusta rilevanza ed adeguata attenzione – scelta che la gallerista Laura Romano in questo caso ha giustamente e coraggiosamente fatto – a quelle nuove forze artistiche emergenti che troppo spesso faticano a trovare la considerazione di cui sono già del tutto meritevoli. “Rara avis”, purtroppo, alle nostre latitudini, ove – per miope calcolo – si preferisce far “maturare” altrove chi manifesti delle doti d’un qualche interesse, salvo poi ergersi a grandi talent-scout allorché altri si siano già fatti carico di tutti i rischi inerenti alla “scoperta”. 

 


Di sguardi, luoghi. Di ombre
nel verso, nella pittura
                                              a cura di Aldo Gerbino.                                 
                                                               
La Collettiva, organizzata in occasione del settimo anniversario di attività della Galleria, comprende  ventotto opere ispirate ad altrettanti testi poetici di celebri autori dall’antichità ai nostri giorni.
 
Gli artisti che hanno realizzato le opere sono:
 
Ugo Attardi, Peter Bartlett, Massimo Campi, Pedro Cano, Salvatore Caputo, Bruno Caruso, Pascal Catherine, Sergio Ceccotti, Angelo Denaro, Giuseppe Fell, Rossana Feudo, Michael Franke, Giovanni Gromo, Anna Kennel, Gaetano Lo Manto, Giuseppe Modica, Giuseppe Montalbano, Franco Mulas, Vincenzo Nucci, Giovanni Orlando, Biagio Pancino, Rosanna Musotto Piazza, Salvatore Provino, Ernesto Tavernari, Antonio Tonelli, Renato Tosini, Matilde Trapassi, Bice Triolo.
 
I testi poetici selezionati  sono degli autori:
 
Antonio Veneziano, Lorenzo Calogero, Mario Luzi, Cesare Pavese, Gian Pietro Lucini, Ibn Hamdis, Libero Altomare, Francesco Balducci, Orazio Napoli, Umberto Saffiotti, Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Luigi D’Eredia, Fausto M. Martini, Luigi Pirandello, Edoardo Cacciatore, Enrico Cavacchioli, Arturo Onofri, Antonio Rubino, Remigio Zena, Bartolo Cataffi, Luciana Frezza, Renato Perucci, Giuseppe Selvaggi, Mimmo Morina, Giulio Arcangioli, Tito Marrone.
 

 
Certo, gli sguardi: quelli femminili, intriganti, feroci, colmi di dolcezza. Così l’amata-odiata Celia del Veneziano, poeta aretinesco usando il ‘dire’ di Sciascia, trova visibilità tenebrosa e affabile, violenta e sensuale attraverso la tecnica mista di Ugo Attardi, proprio in virtù della sua dimensione crudele e libertaria, in spontanea simbiosi con le voraci “Canzuni di Sdegnu”, intrisa di una corporeità pronta a refluire nel cesto incommensurabile della tensione emotiva. Ecco ancora come lo guardo superi, con i “due begli occhi” cantati da Francesco Balducci, la potenza dello stesso astro solare, per temperarsi nell’opera fascinosa di Sergio Ceccotti, in quel suo gelsomino posto, da avida icona rituale, sul davanzale; poi, luce d’occhi, fioca di paralume; vago crepuscolo pervaso da furtive ombre tra i segni del mantello serale. Di contro, la “Preraffaelita” di Guido Gozzano, si erge nella densa classicità di Rossana Feudo dove “niuna mollezza femminile allenta l’esilità del busto irrigidito”; una fierezza avvinta al “Silenzio”, al “Mistero”. O, quando il madrigale secentesco di Luigi D’Eredia offre, dagli “ardenti rai”, il continuo dissodare la luce “infida”, sospinta dalle pupille, in essa s’addensa tutta l’ironia mordace elargita, a piene mani, dalla sensibilità di Giovanni Gromo. Quando, poi, affiorano le spigliate quartine firmate da Fausto Maria Martini, vivacità e sensibilità tattile vengono avvinte nella concisione del disegno e dell’architettura somatica di Anna Kennel; o quando le rose del piccolo capriccio mimico, composto dallo scapigliato Remigio Zena, si spandono, con fragranza disciolta, per volti, per sensi ammorbiditi da languori, ecco gli accesi simbolismi tradotti da Giovanni Orlando. Altre volte i versi forgiati e ricomposti dal fuoco d’amore, in quell’aureo sonetto di Renato Perrucci, son restituiti nella loro interezza magmatica da Salvatore Provino: fuoco, palpito del sangue, “fieri ardori” di cuore e di occhi. La crepuscolare scansione notturna del corpo e dell’anima ci viene proposta, ancora, da Giuseppe Selvaggi e riflessa nella forza schematica di Antonio Tonelli fino a contrarsi, con Salvatore Caputo, nel silenzio statuario dei versi illuminanti di Gian Pietro Lucini. Proprio dagli sguardi prendono corpo le ombre: ora durante “la nascita del sogno” tra le problematiche parole di Lorenzo Calogero tradotte, con vibrati accenti mediterranei da Peter Bartlett, oppure offerte nella rivisitazione delle ombre de “il passato” di Libero Altomare, con la fluidità espressiva di Pascal Catherine, e ancora tra la sostanza nervosa delle “ombre” di Umberto Saffiotti, così nella cromia problematica di Giuseppe Fell. D’ora in avanti si tenta la conquista della essenzialità vitale; e “L’osso” di Bartolo Cattafi ne riconsegna tutto lo sgomento, qui raccolto dalla corrosioni drammatiche e ironiche di Biagio Pancino, o, dalla “solitudine” in sestina di Mimmo Morina, si va ritemprando la monocroma sostanza figurale di Renato Tosini, per entrare, infine, nell’attrazione del gorgo di Giulio Arcangioli segnato, con perizia e trasporto, dall’astrazione simbolica di Matilde Trapassi.
Spingersi nel gioco inarrestabile e trascinatore della visione, della contemplazione attiva del paesaggio, entrando nel ritmo intimo delle cose, nella vastità interagente della realtà naturale, nelle recettive scansioni della dimensione evocativa che promana dagli interni, si costruisce, lentamente, un percorso poetico-pittorico in una dimensione ripida e coinvolgente. Disordine e trasformazione della realtà urbana, espunte dalle parole di Mario Luzi (“Città tutta battuta”), possono condensarsi, con ampia rapidità espressiva, in Massimo Campi grazie a quella tenacia metafisica consegnata al portato civile, alle stesse strutture architettoniche. Una trasduzione della solitudine: dello scontro tra visibilità metafisica e contingenza estrema della città, dei suoi inquietanti dilemmi. Ma in “Passerò per Piazza di Spagna", notissimo testo di Cesare Pavese, Pedro Cano proietta, lungo uno sfumato pervadente e onirico, reso struggente dalla brumosa atmosfera di doglianza e da chiarità impalpabili, quelle sensibili percezioni della “voce” arrampicata lungo le scale, inascoltata e posta tra il ‘tumulto’ della città e il cuore. E quando il luogo si addensa tra i petali della “ninfea” di Ibn Hamdis è Bruno Caruso a consegnarcela nella essenzialità del suo disegno biologico, quasi fuor dagli orpelli, condizionata dall’erosiva tempra dei verdi e dall’occhio candido del fiore navigante, in  triste oscillazione, sulle acque. Così, dopo la “ricchezza” dei segni mediterranei con le chiare parole di Orazio Napoli e il tratto scandito dalle linee parallele di Angelo Denaro, si va conquistando il “Tempio serrato” di Palazzeschi. Sono le nebbie, le cromie sognanti e misteriose ad essere centrate da Michael Franke in tutta la loro tenebrosa fascinazione, in un travaso d’impressioni pigmentarie ove la lezione figurativa di matrice tedesca si fa cocente di germinazioni, trasportate dai venti del corpo pittorico d’uno Schinkel, votata dal mantello dei bruni, approdata, senza forzature, nelle pieghe di una letterarietà di capace impatto analitico. In questo percorso, di colpo, “L’ulivo” pirandelliano si attesta nella luminescenza postmoderna e geometrizzante di Gaetano Lo Manto, anche per quel fluire di toni pacati e, allo stesso tempo, decisi, volitivi, colmi di lirica pregnanza. La condizione, diremmo storica e mitografica della mediterraneità, sembra sostanziarsi nella difficile versificazione (abile confezionatore, in ‘tetrastica’, di tridecasillabi) di Edoardo Cacciatore. “Il peso di un raggio” affiorato dalla perizia emotiva di Giuseppe Modica, si mostra attraversato dalle metafisiche pennellature d’un pointillisme ricreato, per attestarsi, all’unisono, nella dimensione della visione e della parola. E se la “Partenza” del futurista Enrico Cavacchioli trova vivida sostanza nell’olio malinconico di Giuseppe Montalbano, in Franco Mulas le complesse, simboliche e astratte “Strie di cielo, acque lievi, aria sonora” di Arturo Onofri, elaborano un prodotto dipanato in arcane e commosse partecipazioni alla visione, filtrate negli elementi essenziali della terra e dell’anima, del cielo e della corporea naturalità. Poi, con la “Neve sotto la luna” di Antonio Rubino, Enzo Nucci tesse la sua poetica del paesaggio percorso da un impressionismo toccante, modellato nella cupezza del blu intenso dei notturni siciliani, e qui ritrovati, nella filtrata luce racchiusa nello scrigno della notte, dopo un’improvvisa grandinata. Protagoniste le avvertite sponde saccensi presso le ceneri selinuntine, il tutto trafitto dal corpo fenicio d’una svettante palma. La solare “terrazza” di Luciana Frezza viene ridisegnata dalla gioiosa trasparenza di Rosanna Musotto Piazza, con pennello agile e fresco, mentre i paesaggi interni delle “piccole cose” del crepuscolare Tito Marrone, ci vengono concesse, nella loro dimensione tremante e solitaria, dalla matericità graffiante di Bice Triolo; e, con Ernesto Tavernari, artista tanto fiabesco quanto fanciullo, il celebre “Rio Bo” di Aldo Palazzeschi si riproietta nello scenario dilatato d’una fantasia sempre riconquistata. Qui è la stella del nostro passato a brillare, a volte fioca, tra le “casettine dai tetti aguzzi” e l’ “esiguo ruscello”: essi, però, sono rimasti fissi nel cuore impervio dell’uomo, nascosti e impavidi nel nebuloso centro del mondo.
 
Aldo Gerbino

 


 
<<Ut pictura poesis>>. Adagio “classico” ma immarcescibile, la cui assoluta attualità viene confermata in pieno dalla ricca collettiva ancora in corso alla galleria Elle Arte.
L’idea guida da cui muove l’intera esposizione – concepita dal curatore Aldo Gerbino con la collaborazione della gallerista Laura Romano – è stata quella di utilizzare singole liriche (scritte da poeti di epoche diverse e più o meno noti al grande pubblico) quali stimoli ideativi per altrettanti pittori (ben 28 fra siciliani e non), così chiamati al “fiero cimento” della traduzione visuale del tono affettivo di cui pulsano le rime.
Ne è conseguito un articolato caleidoscopio di risposte pittoriche – compendianti stili, linguaggi e tecniche fra loro assai diversi –, tutte però dotate di quella congrua empatia in grado di trasporre attentamente il “mood” che anima i vari carmi selezionati dal curatore.
Ecco allora un tipico notturno di Enzo Nucci, col suo caratteristico andamento impressionista, esplicitare la analoga “nocturnitas” evocata da Antonio Rubino nella sua Neve sotto la luna; o l’eburnea (e ambiguamente androgina) figura muliebre di Rossana Feudo incarnare a perfezione, col suo languore assai estenuato, le atmosfere crepuscolari e l’erotismo simbolista de La Preraffaellita di Guido Gozzano. E ancora la grigia sagoma d’uomo di Renato Tosini, peculiarmente intenta – spalle all’osservatore – a guardare da una finestra l’immancabile mare che si perde all’orizzonte, estrinsecare appieno la Solitudine I di Mimmo Morina; oppure, l’informale “maelstrom” di Matilde Trapassi, tutto orchestrato sullo spiraliforme incedere dei tocchi di colore, dare consistenza ottica a quello Orlo dell’abisso di cui ha scritto Giulio Arcangioli. E poi le aduste corrosioni prodotte sulla carta dalle putrescenti patate di Biagio Pancino farsi vettrici di quel senso di morte e finitudine aleggiante su L’osso di Bartolo Cattafi; così come la fantasmagorica e visionaria Trinità dei Monti di Pedro Cano rendersi muta evocatrice di quel sentimento che vena di sussulti emozionali Passerò per piazza di Spagna di Cesare Pavese.
E inoltre, le atmosfere “bockliniane” di Michael Franke chiosare il Tempio serrato di Aldo Palazzeschi; la “vanitas” di Pascal Catherine raffigurare il “panta rei” del Passato di Libero Altomare; le “monettiane” ninfee di Bruno Caruso dare corpo alla sensualità che imbibisce La ninfea di Ibn Hamdis; la metafisica statuaria di Salvatore Caputo riferirisi al glaciale (e simbolico) sembiante de La statua di Gian Pietro Lucini; le totemiche e meditative erme di Giovanni Orlando richiamare il profluvio floreale di Tra le rose di Remigio Zena; l’infantile e gioioso immaginario del novantenne Ernesto Tavernari associarsi al non meno gaio Rio Bo di Aldo Palazzeschi; la solare sensualità mediterranea della fanciulla di Giovanni Gromo impersonare l’oggetto d’amore cui alludeva Luigi D’Eredia in De’ vostri ardenti rai; la fantasia leggiadramente surreale di Ugo Attardi visualizzare l’astio sdegnato dell’amante abbandonato di Cu tia fu chiù di mari lu miu cori del siciliano Antonio Veneziano; il graffitismo intimistico di Bice Triolo attagliarsi a perfezione al domestico ripiegamento de Le piccole cose di Tito Marrone; le sulfuree geometrie non euclidee di Salvatore Provino alimentarsi del fuoco passionale di cui arde Ti dirò che sia amore di Renato Perrucci; il gioco di policromie biomorfe di Franco Mulas scaturire da Strie di cielo, acque lievi, aria sonora di Antonio Rubino; l’informale e sommessa polifonia coloristica orchestrata da Giuseppe Fell immaginare le emotive Ombre di Umberto Saffiotti; la vivace tavolozza mediterranea della Musotto Piazza rendere la sensoriale vitalità de La terrazza di Luciana Frezza; il pausato paesaggismo di Giuseppe Montalbano scandire i ritmi della Partenza di Enrico Cavacchioli; il cristallino nitore vedutistico di Giuseppe Modica attagliarsi ad Il peso d’un raggio di Edoardo Cacciatore; la geometrica e viridante scansione panoramica di Gaetano Lo Manto rimarcare le esistenzialiste riflessioni botaniche di A un olivo di Luigi Pirandello; la maliziosa fisiognomica muliebre di Anna Kennel alludere allo scambio di amorosi sensi delle Tre quartine di Fausto M. Martini; la vitalissima cinetica sottomarina immaginata da Angelo Denaro farsi portavoce de La ricchezza di Orazio Napoli; il misterioso e solingo interno di Sergio Ceccotti evocare i languori di O cari a l’Alba mia candidi fiori di Francesco Balducci; le rutilanti policromie bizantineggianti di Peter Bartlett estroflettere il corposo immaginario de La nascita del sogno di Lorenzo Calogero; l’eros notturno e pudico di Antonio Tonelli accordarsi con quello de Il digiuno di Giuseppe Selvaggi e infine il sospeso vedutismo metropolitano di Massimo Campi farsi compiuto controcanto a la Città tutta battuta di Mario Luzi.
 
                        Salvo Ferlito

 

Note:  Nella recensione di Aldo Gerbino è visibile l'opera presentata nella rassegna da Pedro Cano. Il lavoro esposto da  Franco Mulas  è invece associato alla critica di Salvo Ferlito.
 
IN SEGUITO AL SUCCESSO RISCONTRATO
LA CHIUSURA DELLA MOSTRA E' STATA PROROGATA AL GIORNO 2 LUGLIO 2005

 

                                      ORARI: 10-12.30  /   17-19.30 (CHIUSO I FESTIVI E IL LUNEDI’ MATTINA)
                                               PER INFORMAZIONI tel./fax 091-6114182.  e-mail ellearte@libero.it      

PETER BARTLETT 
(pittore)
e
ANN STOKES 
(ceramista e scultrice)
 
APPUNTI MEDITERRANEI”
 
In esposizione 21 dipinti del pittore inglese Peter Bartlett che ormai da parecchi anni vive e lavora a Cortona (Toscana). Si potranno apprezzare oli su tavola, pastelli, tempere ed ancora tecniche miste, a testimonianza del suo virtuosismo ed eclettismo nella padronanza dei metodi pittorici.
Per Bartlett il quadro è uno spazio o meglio un universo autonomo e completo.
Forte appare la lezione di Matisse, di Gaudì e dell’astrattismo colto del ‘900; il tutto vivificato dalla scoperta nel 2001 della Nostra Sicilia durante un viaggio che il pittore ha compiuto con emozione e stupore nell’osservare la giustapposione di stili architettonici e culturali che ci caratterizza.
 
La mostra vede anche la presenza di una ventina di opere della ceramista Ann Stokes, la quale ormai dagli anni ’80 alterna il suo lavoro tra lo studio di Londra e quello di Cortona, dove entrata in contatto con Bartlett scoprono  una grande affinità artistica e proprio per questo, ormai da tempo, espongono spesso insieme le proprie opere in Italia e in Europa.
Sono ceramiche che racchiudono nella loro materia echi e sapori lontani. Colori tenui si alternano a tonalità più calde e decise, forme semplici ma allo stesso tempo cariche di calore e di una raffinatezza particolarissima. Ecco, allora, che una ciotola o una tazza è esibita con pari dignità accanto alla scultura di un uccello o di alberi compositi o ancora alle forme essenziali di piatti, che costituiscono degli UNICUM nel loro genere.
Una mostra raffinata e particolare da non perdere per gli amanti della cultura e dell’arte mediterranea.
All’ inaugurazione saranno presenti entrambi gli artisti. L’ingresso è libero.
La mostra si protrarrà fino al 20 MAGGIO.  
 
 
PETER  BARTLETT
Luce e colore sono quelli tipici del Mediterraneo. E lo sono anche i soggetti, con le loro esplicite suggestioni “orientaliste”.
La pittura di Peter Bartlett costituisce infatti l’ennesima conferma di quali nuove prospettive possano aprirsi nell’immaginario di un pittore nordico al contatto con la natura e l’arte della Sicilia.
Nel suo “grand tour” personale, che lo ha portato a lasciare l’Inghilterra per trasferirsi definitivamente in terra di Toscana, non poteva certo mancare l’esplorazione della “Trinacria”, quasi a segnare un simbolico (oltre che geografico) punto di non ritorno e quindi di ripartenza nel proprio fare artistico.
Ripartenza che non consiste – riteniamo – nel solo accendere le tele di barbagli coloristici – esito cui si giunge facilmente rimanendo a casa propria e guardando all’operato delle avanguardie storiche –, ma riuscendo a stabilire un rapporto di intensa empatia con l’ambiente che si osserva (la Sicilia, nello specifico) fino a coglierne gli umori più profondi.
Non è un caso, per tanto, che Bartlett si soffermi sulle vestigia – artistiche e naturali – della dominazione araba (e dei suoi cascami in epoca normanna), percependo il loro essere un compiuto paradigma della sicilianità. Palme, rimandi alle euritmie geometriche degli arabeschi, richiami architettonici e soprattutto quel senso estetico della vivace composizione di cromie (che caratterizza l’offerta delle merci nei bazar arabi e nei mercati insulari) affollano le carte del pittore inglese, restituendo al riguardante l’essenza e le atmosfere di un contesto vissuto con la pienezza del corpo e della mente.
Genoardo, Arabis, Salsibal, Estasi notturna, Andante Palermitano, con il loro tono affabulatorio da “Mille ed una notte”, testimoniano dunque d’una profonda e completa comunicazione affettiva ed intellettuale con un ambito pregno di storia e di cultura, dal quale trarre spunti e suggestioni con cui intessere una raffinata narrazione per immagini.
Un percorso conoscitivo – quello “da un’isola ad un’isola” – che, andando ben oltre i semplici aspetti di formazione artistica, si fa mirabile metafora d’una intensa esperienza esistenziale.

 

Massimo Campi 
Luci dalla città
 
Le atmosfere terse e cristalline, l’intensa (e a tratti abbacinante) luminosità, l’impianto pausato e lievemente sospeso declinano un vedutismo metropolitano di straniante originalità.
Nell’ampio panorama dell’imperante neofigurazione, le vedute di Campi si distinguono infatti da tante altre analoghe pitture per un approccio decisamente singolare alla tematica: ovvero per una resa dello hic et nunc che non prevede alcuna esasperazione espressionistica né tanto meno qualsivoglia acidità visuale, propendendo piuttosto per un distacco olimpico ed estremamente equilibrato, però del tutto esente da indulgenze veristiche o accomodamenti fotografici.
Non a caso, gli scorci di Roma che egli ci consegna potrebbero ben appartenere a qualsiasi altra metropoli , immuni come sono – pur nell’ossequio al puro lessico figurativo – da forme di caratterizzante descrittivismo topografico o di facile retorica monumentalistica. L’anonimato dei caseggiati e delle strade tipici d’una urbanistica alquanto spersonalizzata e spersonalizzante, l’affastellarsi degli edifici in policrome fungaie, il ripetersi di analoghi elementi architettonici, la sospesa desolazione dei luoghi (eccezion fatta per la sporadica presenza di qualche auto in movimento) sono tutti elementi propri di ciascuna periferia urbana, e in quanto tali riscontrabili ad ogni longitudine e latitudine. Ciò non di meno, la pittura di Campi riesce sempre nell’intento di sottrarsi alle possibili insidie di una ovvia metafisica d’ascendenza dechirichiana o d’un melancolismo di gusto sironiano, così eludendo le gore e le panie del citazionismo manierato, in virtù d’una raffinata polifonia cromatica e d’un sobrio luminismo totalmente estranei alle inquietudini ed alle tetraggini dei due grandi maestri del secolo trascorso.
Il vedutismo di Massimo Campi è in genere caldamente tonale nelle sue declinazioni coloristiche e circonfuso d’avvolgenti riverberi di luce, e solo di rado umbratile e crepuscolare, ma non per questo meno misterioso e impenetrabile. Dietro le facciate dei tanti palazzoni, oltre la moltitudine di imposte e di finestre, di certo brulica la vita, con tutti i suoi cascami sociali e psicologici. Tuttavia Campi non ne fa menzione, lasciando che siano gli osservatori, superato il senso di soggiogante straniamento, a sciogliere l’arcano col loro intuito fantasioso.
Un aperto narrare – dunque – dalle notevoli capacità di coinvolgimento ottico-affettivo, la cui vis sta nel suo potenziale evolversi oltre i limiti percettivi della visione, per sconfinare negli impenetrabili territori della immaginazione.
 
Fino al 29 aprile 2005

 


 
Mapanati
 
Il segno forte ed incisivo, il tratteggio semplice e quasi primitivo, le cromie pure stese a produrre accostamenti netti ma suadenti sono alcuni dei caratteri fondanti dell’attuale fare artistico della cilena Mapanati.
Pittrice (ma anche scultrice, come attestano le aeree e geometriche sculture aleggianti in galleria), l’artista sud-americana ha infatti trovato in questo lessico dall’impianto felicemente primordiale (nel quale riecheggiano suggestioni ancestrali ed aborigene) lo strumento espressivo ideale con cui scandire e ritmare la vis immaginifica della propria vocazione affabulatoria.
Non a caso, i dipinti di Mapanati descrivono (e forse, più appropriatamente, riscrivono) il mito per eccellenza – ovvero quello della Genesi – con un afflato cosmogonico al cui irretente magnetismo visuale non è estraneo il vivace immaginario latino-americano.
La smagliante brillantezza coloristica (che pure mai eccede in estremismi espressionistici), il misurato profluvio di figure e figurette zoomorfe e antropomorfe, la ricorrente simbologia astronomica rimandano, per l’appunto, a quella fantasiosissima inclinazione narrativa che è propria della mitopoiesi derivante dall’incontro dell’immaginario dei latini con quello dei nativi americani.
Non stupisce, per tanto, che l’artista cilena abbia sintetizzato questi influssi in una scrittura euritmica ed estremamente raffinata, che però pulsa di una termica emotiva e di una pirotecnia ottica del tutto tipiche dell’estetica latino-americana. Il che non implica alcun ridimensionamento “folklorico”, ma piuttosto rafforza – contribuendovi – quel rimescolamento “contaminativo”, fatto di nomadismi e ibridazioni, che contrassegna questa nostra fase storica di forte globalizzazione culturale.
Ben venga, dunque, una siffatta arte in cui il racconto si sostanzia di spunti lessicali di svariata provenienza (infantili, primitivi, colti, surreal-favolistici e mitico-religiosi), allorché il risultato sia di vaglia e qualità; poiché fra i compiti primari di ogni pittore-affabulatore vi è quello di condurre i riguardanti nei meandri di una suadente narrazione per immagini ove l’incanto visuale proietta in una dimensione psichica “altra”, capace di esentarci, almeno per un attimo, dalle banali miserie della nostra ossesiva quotidianità.

 


Giovanni  Orlando 
"Sursum corda"
 
Le atmosfere pausate ed avvolgenti, la silente ieraticità dei soggetti, la scelta di morbide tinte coloristiche, tutto, nella pittura di Giovanni Orlando, testimonia d’una intensa meditatività di fondo, posta a sostegno d’un coerente fare artistico.
Del resto, il palese riferirsi alle filosofie orientali non fa che confermare l’idea d’una pittura quale prassi gnostica, ovvero quale percorso conoscitivo che consenta di pervenire a una forma più profonda di contatto col divino.
Un “entusiasmo” (nell’accezione classica della “crasi con il dio”) che Orlando mira ad attuare attraverso un linguaggio chiaramente figurativo (in cui però permangono tracce di quei “mandala”, cioè di quelle composizioni geometriche, ricche di simboli, realizzate dai monaci buddisti) e soprattutto assolutamente armonioso ed equilibrato, e per ciò stesso rifuggente da qualsivoglia tentazione dionisiaca e da derive più o meno espressioniste. Il che costituisce una scelta lessicale decisamente antitetica ad altre del passato, nelle quali viceversa ribolliva e tumultuava una impellenza espressiva, riconducibile a quella matrice centro-europea con cui il pittore ha da sempre gran dimestichezza.
Sicchè, mentre in precedenza la ricerca veniva proiettata ed estroflessa, con violenza gestuale e coloristica, fuori di sé, oggi invece il moto ideativo dell’autore pare essersi invertito, ricomponendosi in un introspettivo gioco di raffinate e misurate simmetrie. Ricorre, infatti, in queste carte (dipinte con variegate tecniche miste) l’universale tema del doppio: di quel dualismo che per gli orientali è alla base di ogni cosa, e che dunque contraddistinguerebbe anche l’intera condizione umana.
Si spiega probabilmente  in questi termini la elevata frequenza di dipinti che ritraggono coppie di volti e teste. Non erme di tipo classico, più adatte ad indicare uno sdoppiamento dissociativo, quanto – piuttosto – delle facce contrapposte, simbolicamente alludenti ad una compiuta ricomposizione delle due parti di ogni “io”. L’aspetto totemico da idoli antichi, l’accenno ad un sorriso, le tonalità calde e rassicuranti completano il senso di intensa spiritualità che aleggia su queste opere, conferendo loro un indiscusso potere di rasserenamento nei confronti degli osservatori; il che ne fa un valido esempio di come sia possibile percorrere – ancor oggi – le vie del sacro, con un approccio – “rara avis” – sinceramente riflessivo e giammai superstizioso.

 fino al 12 marzo

 


Rosanna Musotto Piazza
“Tra luce e colore”  
 

ROSANNA MUSOTTO PIAZZA Fra Luce e Colore (recensione personale tenutasi alla galleria Elle Arte dall’11 al 19 febbraio)
<<Che cosa è per Lei la Pittura?
E’ il dono più grande che ho ricevuto dall’Alto: la libertà. E’ una delle poche libertà possibili che appartiene a chi si dedica alla pittura, se riesce ad esprimere in tutta sincerità il suo mondo interiore. Libertà che mi permette un’affascinante ricerca, senza mai essere condizionata da  mode, correnti, etichette vere o false. Libera nella gioia dei colori, condizionata soltanto dall’esattezza del disegno.>>
Poche e chiare parole, queste con le quali Rosanna Musotto Piazza descrive – in una maniera circostanziata e precisa, del tutto estranea a quel “critichese” sul quale ama garbatamente ironizzare – il proprio delicato e fantasioso fare artistico.
Dotata d’una vivace vena narrativa di solido impianto affabulatorio, la pittrice palermitana, non a caso, ha spesso attinto, nel corso della sua lunga attività, alla fertile fonte della memoria personale e soprattutto a quella del cosiddetto “immaginario collettivo” (cui ha saputo accostarsi con disincantato occhio e metodo da etnologa), per operarne delle traslazioni visuali contraddistinte da una linguistica del tutto svincolata da obblighi di appartenenza (e in questo senso assolutamente libere) e nelle quali predomina – senz’alcun dubbio –  un’incontrastata ed assai intensa estroversione coloristica.
Proprio il luminoso senso del colore è infatti il protagonista principale di quest’ultima sua produzione, pertinentemente elaborata su supporti vitrei, la cui naturale trasparenza pare in grado di esaltarne ogni sfumatura in tutta la sua vivace brillantezza. Una brillantezza decisamente rafforzata dalla prevalente scelta di soggetti floreali, la quale si rivela – per tanto – di coerente congruità visiva, poiché capace di sfruttare a pieno le caratteristiche di adamantina trasparenza delle superfici, consentendo così alla tavolozza di imporsi nella completa pienezza delle proprie potenzialità espressive. I grandi serti, infatti, con la molteplicità dei petali accostati fittamente, riescono a irretire piacevolmente i riguardanti, occupandone l’intero campo ottico con effetti di suadente pirotecnia cromatica, assimilabili a quelli prodotti da un mosaico o da un assemblaggio di marmi mischi. Una modalità stilistica – quella della costruzione delle immagini attraverso l’accostamento di intensi tocchi di colore che rievocano tessere vitree o marmoree – da considerarsi non casuale, ma frutto di quella tradizione artistica insulare, risalente all’estetica arabo-bizantina e giunta fino al Barocco, che col suo “horror vacui” costituisce chiaramente uno dei solidi pilastri culturali su cui poggia la pittura della Musotto Piazza.
Pittura saldamente ancorata alla propria terra, dunque, ma di una insularità estranea a naturalismi o verismi di sorta e piuttosto declinata – come detto – con una cadenza favolistica (ben evidente in altri soggetti e tematiche non presenti in questa mostra), che consente di traslare il folklore di maniera nella ben più affascinante dimensione della incantata narrazione per immagini.
Un modo inusuale di raccontare la Sicilia, la cui incorrotta freschezza ne fa a tutt’oggi un degno araldo della nostra isola per le vie del mondo.

 

Reduce da una “personale”, organizzata ad Agrigento nell’ambito della Sagra del Mandorlo in Fiore di febbraio (2005), Rosanna Musotto Piazza ha tenuto la sua mostra “Tra luce e colore” nella galleria palermitana “elle arte” di via Ricasoli 45.
I suoi canestri colmi di fiori, le sue esuberanti composizioni floreali, i vasi traboccanti di primizie hanno ancora trionfato nelle sue tele e nelle sue tempere. Ma questa volta la pittrice palermitana ha riservato una novità ai suoi estimatori.
Si tratta di dipinti su vetro infrangibile trasparente realizzati con colori liquidi che una volta in contatto con la superficie diventano materia vitrea, così come vitreo è il supporto.
Il risultato è stato notevole e di straordinario effetto.
Ma l’Artista ha voluto anche in questa mostra esprimersi con pitture su vetro vecchia maniera.
E così della rassegna pittorica hanno fatto parte i quadri su vetro di carattere sacro (Sacra Famiglia, Santa Rosalia) che costituiscono un omaggio alla cultura popolare dei tempi andati.
Tra i dipinti, è stato presentato anche un pannello con motivi floreali su maiolica; una maiolica bianca di bell’effetto cotta in una fornace di Collesano dove sopravvive una tradizione molto antica.
 
Giuseppe  Quatriglio
 

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