A VILLA ZITO LE SPLENDIDE TELE DEGLI EMULI DI CARAVAGGIO
 
 
 
Michelangelo Merisi, meglio noto come Caravaggio, è quel che si dice – con discutibile espressione contemporanea – un “brand” di successo. E lo è anche nelle svariate declinazioni di cui la sua pittura è stata oggetto, ovvero nelle molteplici (per dislocazione geografica e temporale) derivazioni “caravaggesche”.
Laddove infatti non sia possibile esibire opere del grande pittore lombardo di fine ‘500 inizio ‘600, si possono comunque costruire mostre di successo (quanto meno in termini di pubblico, spesso non altrettanto dal punto di vista della qualità storico-artistica), adottando un criterio di intermediazione che consenta la conoscenza del suo stile e dei suoi temi prediletti attraverso il ricorso ai dipinti dei suoi numerosi emuli ed epigoni. Emuli ed epigoni – per l’appunto – perché nel caso di Caravaggio non è appropriato parlare di discepoli, in quanto non ebbe mai un’autentica “bottega” – come era tipicamente in uso in antiquo –, non gradendo egli per nulla i regimi di collaborazione con altri artisti e men che mai di essere “copiato” da pittori poco apprezzati e comunque del tutto estranei alla ristretta cerchia dei “colleghi” suoi amici. E tuttavia – ad onta di quanto fin qui detto, cioè dell’avversione per copisti e imitatori – il suo “verbo pittorico” fu talmente dirompente, che ne conseguì un dilagare a macchia d’olio in tutta Italia (ed anche oltre) con un tipico andamento inerziale che dai primi anni del ’600 – in cui il suo “naturalismo” raggiunse l’acme del successo in ambito romano – procedette fino al pieno ‘700 – con le ultime e tardive persistenze proprio in terra lombarda, ove aveva mosso i primi passi di pittore – come attestato dal permanere di uno spiccato lessico naturalista e dal ricorrere di tematiche di contenuto palesemente pauperistico.
Da queste specifiche premesse derivano dunque mostre quali Da Ribera a Luca Giordano, Caravaggeschi e altri pittori della Fondazione Roberto Longhi e della Fondazione Sicilia  (attualmente allestita a Villa Zito, ove sarà visibile fino al 10 giugno); mostre per l’appunto incentrate sulla fortuna e sulla fama di cui da subito godette la pittura del Merisi presso i contemporanei e sul permanere di vestigia del suo stile nel linguaggio pittorico di tanti altri artisti del ‘600 e del ’700. Non è per altro un caso che il grosso dei dipinti esposti a Villa Zito appartenesse proprio a Roberto Longhi; non è un caso perché il Longhi – in qualità di storico dell’arte – all’operato di Caravaggio e dei caravaggeschi dedicò molti dei suoi tanti studi, essendo per di più artefice di una memorabile mostra (a Milano, nel 1953) dedicata precipuamente ai <<pittori della realtà>>, ovvero a quegli artisti – attivi prevalentemente in Lombardia fra ‘600 e ‘700 – che del naturalismo caravaggesco si fecero a vario titolo epigoni e continuatori.
La mostra di Villa Zito annovera pertanto opere di molti degli artisti italiani e stranieri che si ispirarono al Merisi, dando diffusamente conto di quella folgorante notorietà di cui il suo peculiare stile fu oggetto a partire dalle prime commissioni pubbliche ottenute in ambito romano ed in particolar modo dalla realizzazione dei dipinti per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (San Matteo con l’angelo, Vocazione di san Matteo e Martirio di san Matteo) per interessamento del cardinal del Monte. L’adesione – anche dura ed impietosa – al dato di natura nel riprodurre le fattezze degli umili e dei miseri, la rilevanza della corporeità quale elettivo strumento d’espressione, il sapiente ed assai simbolico dosaggio di luci ed ombre, il pauperismo come mezzo per manifestare un ben preciso orientamento all’interno dell’aspro confronto teologico di quel periodo (con cui farsi portavoce delle posizioni del cardinale Borromeo e di san Filippo Neri, fautori d’un ritorno alla sobrietà della chiesa delle origini e di una maggiore attenzione per gli ultimi ed i poveri), tutti caratteri portanti della pittura del Merisi, non a caso compaiono a vario titolo e dosaggio, e con modalità di rielaborazione più o meno soggettive, nei dipinti esposti a Villa Zito. Dal marcato chiaroscuro del Davide con la testa di Golia di Andrea Vaccaro (del 1630 circa) alla scarna e scavata fisicità del San Girolamo del Maestro dell’Emmaus di Pau (del secondo decennio del ‘600), dal peculiare luminismo – spesso notturni rischiarati da luci artificiali – delle declinazioni olandesi di Matthias Stomer (del quarto e quinto decennio del ‘600) al “filologico” naturalismo di quelle transalpine di Valentin de Boulogne (come nella spettacolare Negazione di Pietro, del 1615-1617 circa, in cui ricorrono le suggestioni de I bari e della già citata Vocazione di San Matteo del Caravaggio), dalla cruda ritrattistica dell’ispanico Jusepe de Ribera (le cui emaciate figure di santi rivelano il diretto abbeveraggio alla fonte del Merisi in quel di Napoli, non a caso prima tappa della lunga e travagliata latitanza del pittore lombardo dopo il bando capitale e la fuga da Roma) a quella che contraddistingue i personaggi effigiati dal misterioso Maestro dell’Annuncio ai pastori (la cui splendida tela, del 1630-1640, costituisce un’autentica summa della pittura del Merisi), dalle elaborazioni eleganti e classiciste del Lanfranco (che non a caso, con gli altri emiliani Carracci, Domenichino, Guercino e Guido Reni, determinò il progressivo passaggio dal Naturalismo al Classicismo negli anni successivi alla morte del Caravaggio) alle raffinate contaminazioni presenti nello stile di Luca Giordano e Mattia Preti (i quali seppero coniugare la lectio caravaggesca con influssi veneziani e classicisti acquisiti nel corso delle loro ampie peregrinazioni), fino al virtuosismo naturalistico delle “tenebrose” nature morte di Recco e Realfonzo nonché alla soggiogante scurità del paesaggio del Liagno (non per nulla tutti pittori napoletani fortemente imbevuti delle suggestioni seminate in terra partenopea dal gran lombardo), a Villa Zito è dunque tutto un susseguirsi di tele di notevole pregio estetico e soprattutto di palese derivazione – seppur con modalità del tutto personali – dalle peculiari intuizioni linguistiche scaturite dalla mente e dalla mano di Michelangelo Merisi. Il che permette di comprendere a fondo come, anche in epoche in cui viaggiare era assai complesso e non esistevano di certo i media di cui godono gli artisti di oggigiorno, fosse tuttavia abituale che ogni nuova corrente artistica degna di nota avesse un’ampia e rilevante diffusione, determinando la comparsa di una koinè – di un linguaggio largamente condiviso – in grado di connettere artisti di diverse latitudini e di spingerli di fatto a un comune sentire ed operare.
Da questo punto di vista, la mostra di Villa Zito è senza dubbio indicativa e stimolante, poiché capace di fare intendere ai visitatori non solo quali fossero i caratteri salienti del naturalismo caravaggesco, ma in particolar modo di evidenziare come, in ogni fase della storia, siano sempre stati in atto un intenso dibattito e una vivace dialettica fra artisti di diversa provenienza e formazione (ed anche generazione), con conseguenti e inevitabili sviluppi di tipo fortemente ibridante e contaminatore. Così come il Merisi aveva certamente guardato alle soluzioni coloristiche e luministiche della pittura veneta del ‘500 (doveva sicuramente aver visto le opere dell’ultimo Tiziano e di Tintoretto) ed anche al magistero leonardesco (l’Ultima Cena senza dubbio, dato che i primi passi da pittore li fece proprio in quel di Milano, nella bottega di Simone Peterzano) e alle esperienze dei lombardi del pieno ‘500 (da Sofonisba Anguissola, che morì centenaria dopo di lui, nel 1625, proprio a Palermo, ai Campi, con le loro complesse scene di mercato, ed al Figino, autore della prima ed effettiva natura morta della storia dell’arte italiana), parimenti gli artisti a lui contemporanei, e quelli delle generazioni successive (in fondo fino a David, il cui Marat assassinato è tutto un tributo al suo inconfondibile lessico), seppero altrettanto ispirarsi ai suoi innovativi dipinti, traendone dunque – come attestano le tele esposte a Villa Zito – molteplici spunti e suggestioni, poi tradotti in maniera più o meno filologica ed imitativa.
Tuttavia – in cauda venenum – quel che manca a questa mostra è proprio la presenza di quei <<pittori della realtà>> di cui Longhi si occupò – come detto – nel 1953. Nessun dipinto di Ceresa o di Baschenis, nessuna opera del Crespi o del Ceruti, insomma praticamente nulla che testimoni del lungo permanere in Lombardia di quanto proficuamente seminato dal Merisi.
Non so, sinceramente, se la Fondazione Longhi annoveri dipinti di questi artisti – il suo sito internet non fornisce, a tutt’oggi, né i nomi degli autori né l’elenco delle opere presenti nella collezione –; ciò non di meno, rimpolpare l’allestimento con qualche prestito mirato, consentendo una proficua integrazione a rinforzo del percorso espositivo, non sarebbe stato di certo un male. Peccato, però, che così non sia stato. Si spera possa esserlo in qualche altra occasione.
La mostra, curata da Maria Cristina Bandera, sarà visibile – come detto – fino al 10 giugno, dal martedì al giovedì ore 10/17, dal venerdì alla domenica ore 10/19.
 
 
                                                                                     Salvo Ferlito - maggio 2018            
 
 
 
DI LA’ DEL FARO
PAESAGGI E PITTORI SICILIANI DELL’OTTOCENTO
In mostra a villa Zito le luci e le ombre della pittura siciliana del XIX secolo
 
Per recensire una grande mostra, quale Di là del faro, è possibile ricorrere ad almeno due registri narrativi. Per dirla con il linguaggio dell’antropologia, si può optare per una semplice “thin description” (una “descrizione sottile”), limitandosi a evidenziare la notevole e virtuosistica qualità della pittura, o si può viceversa procedere nel senso d’una ben più approfondita “thick description” (ovvero una “descrizione spessa”), cercando di analizzare i fini e le motivazioni sottesi al fare artistico. Volendo, pertanto, rimanere in superficie, non si può non sottolineare la bellezza dei tanti dipinti in esposizione e la grande perizia dei pittori siciliani che operarono fra ‘800 e primi ‘900. Volendo, invece, capire il perché di questa spiccata (e quasi esclusiva) predilezione per la pittura di paesaggio, è giocoforza rilevare come tale orientamento prioritario sia stato fondamentalmente dettato non soltanto dall’adesione alle poetiche del “vero” (contestualmente presenti in letteratura, come attestano le opere di Verga e Capuana) ma soprattutto da una voluta riluttanza ad andare oltre i perimetri d’una pur stupefacente mimesi del mondo naturale.
Per comprendere il perché straordinari virtuosi quali Francesco Lojacono (non a caso definito il “ladro di sole”), Antonino Leto, Michele Catti (e gli altri allievi, seguaci e imitatori) siano in fondo rimasti ai margini del vorticoso flusso intrapreso dalle arti visive durante l’800 (si pensi all’Impressionismo, al Simbolismo, alla “macchia” toscana), bisogna inevitabilmente adottare un’ottica comparativa con quanto avveniva contemporaneamente nel resto d’Italia ed in Europa, e ancor più un taglio sociologico che scandagli a fondo la società insulare di quell’epoca (e in particolar modo i rapporti fra artisti e committenza). Mentre altrove l’occhio indagatore si concentrava sui meccanismi (e sulle contraddizioni) della vita cittadina (si pensi alle scene ambientate dagli impressionisti o dai post-impressionisti nei locali notturni, nei bordelli o nelle strade) o sui sempiterni problemi delle diseguaglianze socio-economiche (si guardino i dipinti di Morbelli, Pellizza e Signorini in Italia, o quelli di Repin in Russia), nella pittura siciliana tutto ruotava intorno al paesaggio e alla veduta, con una espunzione quasi totale di qualsivoglia componente che potesse porre in questione le sclerotiche ingiustizie d’un assetto plurisecolare  di matrice feudale e latifondista. Basti qui ricordare come i protagonisti di questa stagione delle arti insulari venissero cooptati da cerchie culturali altamente elitarie (come l’arcinoto Circolo Artistico, ai cui vertici, non a caso, si alternavano artisti e aristocratici), per capire con chiarezza le ragioni profonde (di certo non solo estetiche) alla base di scelte artistiche dagli esiti visivi di sicura raffinatezza ma anche dai connotati fortemente omissivi.
In tal senso l’esauriente sequenza di dipinti in esposizione si presta assai bene a una attenta lettura in filigrana, consentendo agli osservatori non solo di apprezzare – in luce – gli eleganti virtuosismi, ma soprattutto – in controluce – le tante e notevoli mistificazioni d’una pittura “veristica” del tutto aliena dal rappresentare la realtà.
E’ sufficiente, a tal proposito, dare uno sguardo ad opere quali Al sole di Ettore De Maria Bergler o Pescatori di telline di Francesco Lojacono o ancor più Idillio campestre di Rosario Spina e Ve ne darò di Antonino Leto, per constatare come le figure dei contadini, dei pastori e dei pescatori siano rese con modalità edulcorate ed irreali, del tutto estranee, dunque, alla durezza delle loro effettive condizioni esistenziali. Un dato assolutamente stridente con la situazione sociale, economica e culturale della Sicilia di quei tempi, come del resto attestato con chiarezza – già allora – dalle risultanze delle prime inchieste parlamentari post-unitarie, come quella arcinota di Franchetti e Sonnino, nella quale veniva evidenziata e stigmatizzata la condizione di disagio in cui versavano le masse popolari nella nostra isola, nonché la notevole incapacità, la fraudolenta malafede e soprattutto il vergognoso tornacontismo delle nuove classi dirigenti. Di tutto ciò, ovviamente (ma sarebbe più opportuno dire purtroppo), quasi nessuna traccia è avvertibile nella pittura siciliana di quei tempi. Nessun riferimento ad una organizzazione rigidamente feudale del corpo sociale (situazione perpetuatasi oltre il secondo dopoguerra del ‘900, e che di fatto ha relegato le classi subalterne in una condizione servile fino a pochi decenni fa) né alcuna analisi delle dinamiche alla base del rafforzarsi del fenomeno mafioso (che proprio in coincidenza con l’unità d’Italia, come ben descritto ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e ne I Vicerè di de Roberto, andava intrecciandosi con la politica ed insediandosi sempre più nei gangli vitali del nuovo stato) né ancor meno (se non in qualche sporadico caso, come ne I carusi di Tomaselli o in Famiglia povera di Volpes o ne L’ambulatorio e ne Gli emigranti di Di Giovanni) approfonditi scandagli dell’estrema miseria e dell’enorme disagio in cui versavano le masse popolari. Solo un susseguirsi di ammalianti paesaggi o di scene di genere, entrambi animati da popolani ridenti e paciosi e comunque sempre “depurati” da qualsiasi contenuto urticante o problematico. E tutto ciò, sia detto con chiarezza, non per una presunta e provinciale “insularità” dei protagonisti di quella temperie storica ed artistica; in quanto i più importanti artisti siciliani di quell’epoca furono tutti largamente cosmopoliti e ben aggiornati sugli sviluppi delle arti visive nel resto del paese ed in Europa. Non solo Lojacono e Leto andarono ad abbeverarsi alle fonti “napoletane” (di Palizzi e di Morelli) della pittura veristica – per poi trasmetterne i riflessi ai loro allievi ed emuli – ma ebbero occasione di venire in contatto con esponenti della “macchia” toscana e si trovarono anche “gomito a gomito” con gli stessi impressionisti, ai quali furono affiancati (proprio in terra di Francia, a Parigi) in medesimi contesti operativi. Basta, del resto, guardare alcune esemplificative opere esposte in questa mostra, per avere piena contezza della grande capacità dei nostri artisti di assorbire le novità di carattere linguistico provenienti dalla penisola o d’oltralpe, senza però che ciò mai comportasse una piena appropriazione dello stesso atteggiamento critico nei confronti della società contemporanea a loro circostante. Una attualità di ordine estetico ma non di carattere narrativo – quella dei Nostri –, uno stare nel flusso della contemporaneità con un approccio deliberatamente superficiale, all’uopo adottato per non disturbare i “padroni del vapore” e per non inficiare i rapporti con la ricca committenza.
Detto e precisato ciò, va comunque sottolineato che Di là del faro è certamente una mostra ben costruita e adeguatamente circostanziata. Il percorso espositivo, infatti, consente una ricostruzione assai puntuale dell’evoluzione del genere paesaggistico nel corso dell’Ottocento, muovendo a partire dalla prima metà del secolo XIX e annoverando le opere degli antesignani della pittura di paesaggio in terra di Sicilia. Da Patania a Riolo (di cui viene offerta una interessante selezione di opere grafiche proveniente dalla collezione di Palazzo Abatellis), da Zerilli a Sottile – tutti e quattro autentici iniziatori del paesaggismo insulare, seppure con modalità ancora ancorate a modelli settecenteschi tipici della pittura da Grand Tour, l’esposizione procede con capillare minuzia, annoverando quasi tutti (con l’inattesa eccezione di Rocco Lentini, allievo di Lojacono, stranamente assente in questa mostra) i protagonisti e i comprimari (compresi quelli della Sicilia orientale) della pittura veristica incentrata sul paesaggio. Un percorso espositivo – quello pensato da Sergio Troisi e Paolo Nifosì – che consente, quindi, di ricostruire con fedeltà la temperie artistica di quell’epoca – con luci e ombre, come detto – e di cogliere anche quell’insieme di tangenze, influenze e relazioni che alimentarono le tecniche, i linguaggi ed i moduli estetici dei nostri artisti più famosi. Ne consegue la possibilità, per gli osservatori, di rilevare con chiarezza le interferenze della macchia toscana – ad esempio l’espediente visivo del muro bianco calcinato dal sole, che rimanda alla Vedetta di Fattori, presente in Strada di campagna (Un giorno di caldo in Sicilia!) di Lojacono – o quelle della pittura impressionista – Autunno (Autunno sull’Anapo), del 1907, il quale denuncia l’ormai evidente sfrangiarsi della pennellata di Lojacono in più libere e sintetiche vibrazioni luministiche e cromatiche che rimandano ai modelli d’oltralpe e che emancipano il suo gesto dalla precisione lenticolare dei decenni precedenti – o ancora le influenze “orientaliste” esercitate dalle stampe giapponesi – Febbraio in Sicilia di Ettore De Maria Bergler riecheggia appieno quel delicato sentimento della natura e quella sintesi formale che sono tipici dell’estetica japoniste – o infine gli esiti visivi raggiunti dalle ricerche post-impressioniste – paradigmatico, in tal senso, Sicilia di De Francisco, con le sue pennellate materiche inclini alla destrutturazione cézanniana –.
Non meno interessante, infine, la sezione di fotografie d’epoca che affianca ed integra il percorso espositivo, in quanto in grado di contribuire significativamente ad una completa ricostruzione della temperie artistica ed estetica dei tempi. Poco importa stabilire se sia stata la nascente fotografia – con i suoi tagli e le sue inquadrature – ad influenzare l’impianto compositivo delle pitture di paesaggio di quell’epoca, o se sia stata la pittura – cosa più probabile – ad orientare il modo di inquadrare dei fotografi dell’800. Quel che conta, infatti, è il modo palesemente analogo di “guardare” il mondo esterno e la situazione contingente da parte dei pittori e dei fotografi di quel periodo. Anche nella fotografia – non a caso ai tempi appannaggio della stessa elite – è del tutto assente qualsivoglia taglio sociologico o qualunque intento di denuncia cronachistica. Per quanto di maggior immediatezza, anche il mezzo fotografico si caratterizza – ai suoi esordi in terra di Sicilia – per un approccio evidentemente elusivo e tendente alla censura e all’edulcorazione. Dovranno purtroppo passare ancora molti decenni, perché la fotografia e la pittura siciliane comincino a farsi carico delle tante, troppe e gravose problematiche sociali, economiche e culturali che in gran parte continuano ancor oggi ad attanagliare la nostra isola. Bisognerà attendere una nuova generazione di pittori – quella di Guttuso, per intendersi – affinché le arti visive siciliane comincino ad emanciparsi dal giogo di certa committenza, assumendo finalmente (nel bene e nel male) quel franco carattere politico che è tipico di cosciente autonomia e maggior maturità.     
Curata da Sergio Troisi e Paolo Nifosì, la mostra potrà essere vista fino al 9 di gennaio 2015.
 
                                                                  Salvo Ferlito - dicembre 2014
 
 

 

ANNI PRECEDENTI AL 2013

 
 
UN PEZZO DI SICILIA IN MOSTRA IN FRANCIA: 14 OPERE DEL MUSEO MORMINO PER TESTIMONIARE LA PRESENZA NORMANNA NELL’ISOLA
 
Un pezzo di cultura siciliana “sbarca” in Francia: da venerdì 23 giugno fino al 15 ottobre, infatti, 14 celebri opere custodite nel Museo d’Arte e Archeologia Ignazio Mormino della “Fondazione Banco di Sicilia” (Villa Zito) saranno esposte nella grande mostra Les Normands en Sicile in programma al Musée de Normandie di Caen.
Si tratta di opere grafiche - provenienti dalle collezioni di stampe e disegni - e di dipinti, che compongono le collezioni dell’Ottocento e del Novecento siciliano del Museo Mormino.
La Mostra documenta le diverse fasi della presenza Normanna nel Sud dell’Italia e in Sicilia dal medioevo all’età contemporanea, storia rivisitata da architetti e storici dell’arte a seguito della riscoperta del gotico di Eugène Viollet-le-Duc dalla prima metà dell’Ottocento.
La documentazione iconografica che presenta il Museo comprende un arco temporale di quattro secoli: in mostra la carta topografica di Palermo di Georg Hoefnagel, pubblicata nel 1581 a Colonia, diverse acqueforti tratte dal Voyage pittoresque di Saint-Non e Denon - uno dei più importanti viaggi documentari effettuati nella seconda metà del Settecento nell’Italia meridionale e in Sicilia – i cui resoconti vengono stampati a Parigi tra il 1781 e il 1786. E ancora, litografie tratte da L’Italie monumentale et artistique, vues et monuments di Benoist, Bachelier e Jacottet (Parigi, 1845-1852), la litografia Eglise de la Martorana a Palerme di Leon Auguste Asselineau (Parigi, 1850), e per ultima, per quanto riguarda le opere grafiche, l’affascinante litografia di Sprinter, dal titolo Palerme, vue prise au dessous du Palais Royal.
I dipinti sono Chiostro dei Benedettini Monreale di Salvatore Marchesi; Abside della Cattedrale di Cefalù, di Ettore De Maria Bergler; Chiostro di San Giovanni degli Eremiti di Giovanni Lombardo Calamia, nonché il quadro del pittore futurista Pippo Rizzo, dal titolo Arance, limoni e paladini (1958), ispirata all’Opera dei pupi, che vede, nella cultura popolare, assimilate le gesta dei paladini cristiani e quelle dei cavalieri normanni.
 
 
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PIPPO RIZZO


Quella di Pippo Rizzo è una figura nodale nel panorama artistico insulare del ‘900. E’ a lui, infatti, che si deve il primo vero tentativo di svecchiamento ed emancipazione dell’arte siciliana dai modi ormai obsoleti del vedutismo ottocentesco e dai leziosi vezzi del pur glorioso Liberty locale. Ne dà ampia conferma il gruppo di opere donate dalla figlia Alba alla fondazione del Banco di Sicilia, visibili dal 1° dicembre nella sede espositiva di villa Zito (in via Libertà 52).
L’adesione al Futurismo (seppur tardiva, se si pensa che negli anni ’20 la spinta propulsiva di quest’avanguardia si è in vero assai ridotta) e la febbrile attività di diffusione - insieme a Varvaro e Corona - del verbo marinettiano, concretizzantisi nell’esposizione palermitana del 1927 cui partecipano futuristi storici quali Balla e Prampolini, hanno il grande merito di operare una profonda frattura con la precedente tradizione figurativa locale (storica, paesaggistica e floreale), destabilizzando gli sclerotici equilibri di una estetica superata e provinciale e ponendo l’inderogabile questione dell’entrata della Sicilia nel vorticoso fiume della contemporaneità (“Con questa mostra - viene scritto nel catalogo - Palermo entra finalmente nel ruolo delle città civili”).
Basta guardare il “Motociclista” (un piccolo disegno del ’21), con la sua vibrante scomposizione dello spazio prodotta dallo slancio del mezzo in piena corsa, per cogliere quell’elogio della macchina e della velocità che è la vera tematica portante dell’intero “dinamismo futurista”.
Ma quella del Futurismo è solo una parentesi - per quanto importantissima, viste anche le sue declinazioni nell’ambito delle arti applicate quali il “Salottino futurista”, il “Gilet” e svariati tappeti e arazzi - nella produzione dell’artista. Col tempo, egli si allontana dagli squilli avanguardistici, approdando dapprima (negli anni ’30) ad un linguaggio tipicamente novecentista - ben visibile nel “Risveglio dell’Etna” - e poi (dagli anni ’50) ad uno stile radicato nel folklore e nelle tradizioni popolari, vivacizzato da battaglie di paladini tratte dall’immaginario dei pittori di carretti siciliani. Un lessico che recupera l’incanto proprio dell’infanzia, ma che non segna la regressione da una pittura movimentista e di schieramento ad una ingenuamente naif, offrendo piuttosto quella sottile e pungente ironia tipica dei siciliani più colti e intelligenti. In quest’ottica si spiegano anche le ricche citazioni delle opere più tarde, coi quadri di noti maestri del ‘900 inseriti nei suoi (come nelle vivaci tele in cui carabinieri in alta uniforme, bersaglieri e preti, ritratti di spalle, contemplano un po’ assorti ed interdetti i dipinti di Matisse, Picasso o Leger) in una sorta di scanzonato colloquio che va ben al di là del semplice tributo e che esemplifica con arguzia impareggiabile l’approccio dell’uomo medio alle istanze estetiche della contemporaneità.
L’allestimento si avvale di un catalogo curato da Sergio Troisi e Maria Reginella.

 

Salvo Ferlito

 

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