FILLY  CUSENZA
Aspettando  Tommaso
A cura di  Vinny Scorsone
La contaminazione di tecniche, linguaggi e discipline è il vero sale della contemporaneità artistica.
Non paghi degli abituali ambiti operativi (forse vissuti come limiti o prigioni), spesso insofferenti di cifre stilistiche troppo stringenti, e comunque aperti ad ogni nuova e possibile sperimentazione di carattere fabbrile ed estetico, gli artisti dediti alle attività visive – sarebbe infatti fin troppo riduttivo ed obsoleto parlare ancora di arti figurative – oggidì tendono ad incontrarsi sul piano di una comune progettualità, in un’ottica di complementare collaborazione da cui sovente scaturiscono esiti meticci estremamente innovativi e di grandissimo interesse.
Ed è proprio all’insegna della marcata ibridazione di esperienze artistiche ed intellettuali di diversa matrice e provenienza, che ha preso forma il bell’allestimento realizzato alla galleria Studio 71, frutto dell’intersezione dei percorsi di tre diverse donne: ovvero della fotografa Elsa Mezzano, della scultrice Filli Cusenza e della critica d’arte Vinny Scorsone.
Tutta incentrata sullo scandaglio della corporeità femminile, questa iniziativa ruota infatti attorno alla esibita prorompenza della gestazione, di cui viene resa la componente simbolica e totemica (ed anche archetipica) in tutta la sua ineludibile evidenza, ma sempre con un occhio assai attento agli aspetti più dettagliati di ricerca estetico-formale e lessicale.
Il corpo della donna, dunque, (e specificamente quello della Cusenza, qui nel doppio ruolo di oggetto di ideazione artistica e di soggetto promotore della ideazione stessa), fotografato nel pieno della sua pregnanza, appare di fatto ripensato, riveduto e corretto attraverso una sorta di ricostruzione a più mani, che prevede il fantasioso innesto – mediante cuciture – di candide sagome di tessuto (a mo’ di parti anatomiche) su frammenti fotografici in bianco e nero (centrati sul ventre tondeggiante), fino a pervenire ad una compiuta ed assolutamente metamorfica totemizzazione del processo gestativo.
L’estroflessa volumetria addominale (sulla quale si focalizzano l’ossessivo obiettivo della Mezzano e le chiose in versi della Scorsone) pare in tal modo volere quasi rilanciare e riproporre – seppure in termini aggiornati e coerenti con una ben più sdrammatizzata visione contemporanea – certi culti della fertilità ancestrali (si pensi alle Veneri steatopigie del neolitico), intorno ai quali è stato architettato tutto un pensiero paleo-antropologico tendente a dimostrare – non senza una certa carica di immaginazione – l’esistenza di una più che ipotetica era matriarcale, la quale avrebbe preceduto l’attuale assetto ancora patriarcale e patrilineare della nostra società. Sia quel che sia – ovvero che si tratti di una idea scaturente da premesse di sapore puramente femministico, o semplicemente di una iniziativa sostenuta soltanto da motivazioni di natura artistica –, è certo che l’impianto progettuale e di pensiero su cui poggiano queste singolari opere ha l’indubbia capacità di evidenziare l’intero potenziale estetico insito nel corpo muliebre deformato dai meccanismi gestazionali. Un corpo del quale viene resa – senza edulcoramenti mammistici o infingimenti estetizzanti – la vigorosa e scultorea plasticità e soprattutto viene disvelata – senza pudore alcuno – quella irretente carica simbolica che ne fa ancor oggi – pur nella dettagliata conoscenza delle dinamiche biologiche – un misterioso tabù, oggetto di un inconfessato interesse dai risvolti quasi idolatrici e feticistici cui non sono estranee profonde componenti psicoanalitiche.
Pur non di meno, questo corpo così ieratizzato nell’incombenza primigenia del suo soggiogante potere riproduttivo, riesce sempre a sottrarsi alle insidie  di quel retorico onnipotentismo che spesso permea le abituali riflessioni condotte dalle donne sulla loro gravidanza; e tutto ciò in virtù d’una riorganizzazione visuale del soma, la quale, avvalendosi d’un approccio ricostruttivo “frankensteiniano” (articolato col suddetto gioco di innesti e sovrapposizioni quasi fumettistico), finisce con lo svelare quel sottile filo d’ironia in grado di stemperare l’intero insieme in una fabulistica e immaginifica visione.
Non si creda però che la scelta dell’affabulazione implichi – per ciò stesso – alcun eccessivo alleggerimento contenutistico; poiché la capacità di queste opere di farsi vettrici delle radicate fantasie albergate nella psiche femminile permane in tutta la sua intonsa e inalterata potenzialità. La leggerezza che le caratterizza, infatti, non è mai esente dal sostegno d’un pensiero forte e lungamente cogitato, poi tradotto puntualmente in una narrazione assai fluida e dettagliata.
Raccontando e raccontandosi attraverso una meccanica meticcia di decostruzione-ricostruzione visiva, questo gruppo di artiste ci consegna per tanto una rinnovata percezione e cognizione della propria topografia somatica. Una fantasiosa e originale autotopognosia, che, muovendo da ottiche interne e tutte femminili, riesce infine a offrire le coordinate eccentriche da cui osservare e scandagliare, con prospettiva “altra”, questa particolarissima (e ancora non del tutto esplorata) dimensione psico-fisica della corporeità.vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 

 
   
BARTOLO CONCIAURO
Cuore di Palma
A cura di  Vinny Scorsone
 
La mostra comprende 14 lastre di lamiera zincata trattata con inchiostri e cera e un video in bianco e nero accompagnato da musiche di Giovanni Kapsberger. E, mentre le lastre sono riferite esclusivamente alla donna in quanto tale e alla sua bellezza, nel video Conciauro, nell’insolita veste di regista, pone al centro dell’attenzione non tanto la donna, peraltro elemento costante della mostra, bensì i sentimenti comuni a tutta la razza umana.
Scrive Vinny Scorsone presentando l’artista in catalogo  “(…) Le sue lastre trattate, che paiono frutto di sapienti morsure, restituiscono allo spettatore immagini evanescenti appartenenti al mondo delle emozioni svaporate dal ricordo. Innamoramento, estasi, abbandono, trovano nella figura femminile, meno vergognosa, rispetto all’uomo, di svelare le proprie gioie e dolori, un tramite ideale. Sguardi sfuggenti, felicità attimi intimi, indifferenza e orgoglio ferito, convivono, in questa mostra, come se appartenessero ad un unico vecchio album di foto scolorate dal tempo. (…)”. E ancora: “(…) Nel video, in rigoroso bianco e nero, che egli presenta in questa occasione e che da il titolo all’intera mostra, il suo pensiero si esprime ancora con più vigore. Sobrio, come l’intera esposizione, in esso l’autore ripercorre i vari stati dell’innamoramento passando dalla felicità al dolore causato dall’abbandono. Qui, più che in tutto il resto della mostra, il concetto di palmo-palma è portato fin quasi all’esasperazione. Il piccolo cuore, stretto dai legacci dell’amore, soffre. Prima è un dolce legame ovattato dalla cecità dell’innamoramento, poi un dolore che si impossessa di tutto il corpo. Le sofferenze amorose trasformano il piccolo scrigno carnoso in palma del martirio donando al cuore tormenti, spasmi d’amore e lamenti. Ma è un passaggio, una prova da superare per potere tornare a sorridere e a ri-innamorarsi. (…)”.
La mostra è stata realizzata con il contributo della Provincia Regionale di Palermo.

 Recensione

Contraddicendo nettamente la sua abituale e peculiare cifra stilistica pittorica – tipicamente caratterizzata da un lessico astrattista nelle cui geometriche articolazioni però affiorano percepibili allusioni biomorfiche –, Bartolo Conciauro ha optato questa volta per una imprevista e radicale “rivoluzione copernicana” della sua arte, singolarmente posta in essere attraverso una ripresa figurativa di solido impianto narrativo.

Cuore di palma – così si intitola la sequenza di opere esposte alla galleria Studio 71 – è infatti una attenta disamina della passione amorosa, tutta incentrata sul minuzioso studio fisiognomico d’ogni minimo risvolto mimico (ma anche posturale) indotto in una fanciulla assai leggiadra dal violento e incontrollato infuriare del pathos sentimentale.

Una meticolosa scansione dei molteplici, incoercibili e talvolta confusi stati d’animo che si susseguono nella psiche femminile per effetto del travaglio erotico, che Conciauro riesce a rendere con tempestiva puntualità e con doti non comuni d’empatia, ricorrendo – per altro – a una tecnica decisamente (almeno per lui) inconsueta, ovvero al trasferimento di nebulose ed aeriformi immagini in bianco e nero su lastra zincata e rinforzando il tutto con un raffinato video contrappuntato da una altrettanto appropriata colonna sonora di inconfondibile sapore madrigalistico.

Se nella serie di fotogrammi su metallo, l’artista riesce perfettamente nell’operare il “fermo immagine”, fissando i singoli “affetti” nella loro intensa e complessa carica emotiva – così sottraendoli alla naturale fuggevolezza delle cinetiche intrapsichiche –, di contro, nel cortometraggio, la dinamica interiore delle pene amorose viene resa nella totalità del suo divenire con una completezza di sfumature cui contribuisce impareggiabilmente la misurata gestualità della brava attrice protagonista.

La parte e il tutto, dunque, integrati in una sinossi ampia ed assai esaustiva, la quale consente all’osservatore di concentrarsi su ogni minimo fremito amoroso del soggetto effigiato, ma anche di ricostruirne le tempestose derive interiori nel loro sofferto e incontrollato maturare. E tutto ciò, senza alcun cedimento di sorta o di maniera a stucchevoli compiacimenti e ad estenuati languori, ma sempre con un lessico estremamente misurato che non indulge ad alcuna teatralità eccessiva – anche e in special modo nel ben calibrato video – e che piuttosto si rivela del tutto funzionale – in virtù del sapiente effetto dissolvenza che distingue le lastre zincate – alla tempestiva “inquadratura” delle fuggevoli tappe del tumulto emozionale.

Una profonda psico-analisi (nell’accezione semantica e non terapeutica del termine), questa di cui Bartolo si è fatto artefice, ben condotta all’insegna della compiuta interazione fra le varie discipline visive, e che conferma ulteriormente l’esigenza avvertita da molti artisti contemporanei di uscire dagli abituali “seminati”, per sconfinare con proficuità in territori “altri”, ove poter appagare il proprio impellente desiderio di ricerca.

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Carmelo  Melfi
 Forme e colori dell’anima

 

La forte scansione geometrica delle superfici pittoriche rimanda ai precedenti storici dell’astrattismo più razionalista. Eppure, ad un attento esame, il linguaggio di Carmelo Melfi pare piuttosto muoversi su un registro binario, nel quale il forte impianto progettuale non rinnega né mai espunge quelle turbolenze emozionali che fanno abitualmente da lievito ideativo ad ogni gesto artistico.
La griglia cartesiana, fatta di linee nette che riquadrano aree fluttuanti sulle monocrome (e per lo più compatte) campiture dello sfondo, perimetra infatti stesure decisamente più magmatiche, nelle quali le screziature ruvide e materiche controbilanciano il più morbido e serico andamento del colore circostante.
Una “bipolarità” lessicale – questa di Melfi – che contempera le due anime dell’astrattismo storico (geometrica e informale) e che al contempo sembra voler simbolizzare – seppur con qualche didascalismo di maniera – la compresenza, in ogni psiche, di due nature in apparenza contrapposte (quella razionale e quella emozionale) e pur tuttavia imprescindibili ai fini d’una fisiologica vita interiore.
Euritmica e suadente nelle soluzioni coloristiche, armonicamente organizzata sul piano compositivo, la pittura di Melfi, col suo carattere di ricerca non solo visuale ma anche psico-affettiva, rappresenta dunque una estrema propaggine astrattista in grado di oltrepassare i confini del mero decorativismo per farsi vettrice d’un “messaggio” più profondo e articolato, decisamente più aderente alla sensibilità dei travagliati tempi che viviamo.

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Franco Mulas
 Palatale
Raffinato e brillante colorista, Franco Mulas pare affidare al polifonico incedere delle nuances tutto il senso del proprio fare artistico.
Un uso decisamente “espressivo” del colore, questo di Mulas, e in quanto tale capace di scandire all’unisono il tumultuante divenire delle dinamiche interiori, dando però loro una dimensione visuale nella quale la sarabanda di cromie si ricompone in una sinossi di assoluta euritmia. Infatti, benché riconducibile al grande alveo dell’Espressionismo astratto, il lessico dell’artista romano, pur nella parvente dominanza di esiti informali, mantiene appieno quel senso di armonia compositiva – attraverso l’appropriato accostamento delle tinte e la sapiente misura delle pennellate – che è tipico della più classica figurazione. Non è un caso, per tanto, che Fortunato Bellonzi abbia accostato le sue inconfondibili (e spesso predominanti) azzurrità celesti (ma potrebbero ben essere, dato il loro caratteristico fluttuare, anche marine o ancor più fluviali o addirittura cosmiche) a <<…certi cieli lacerati, turbinosi, alla Tiepolo, ma più spesso alla Altdorfer ed alla Greco, però senza gusto antiquario…>>, a conferma della “classicità” che permea nel profondo questi dipinti e che giammai viene contraddetta dall’ondivaga stesura destinata ad irretire i riguardanti col suo caleidoscopio di avvolgenti dissolvenze. Ed è proprio il fluido ed assai morbido procedere delle pennellate, il loro accostarsi in una scansione corale di sfumature squillanti e variegate, a conferire quel peculiarissimo senso di dinamismo e di inarrestabile cinetica – da “panta rei”, per dirla con Eraclito – che sembra animare dall’interno tutte queste opere, per altro connotandole con una cifra stilistica assolutamente impareggiabile.
Nella serica superficie dei supporti cartacei, ecco allora pulsare un intero microcosmo popolato di presenze biomorfe e fitomorfe, in preda a moti interattivi e collisioni inerziali foriere di sempre nuova vita. E sembra quasi di trovarsi al cospetto del farsi gorgogliante del principio d’ogni cosa, di quel magmatico ribollire del “plasma (o brodo) primordiale” in cui tutto pare aver avuto il suo incipit “casuale e necessario”.
Pittura di dimensione “universale”, dunque, questa di Mulas, in cui predomina un carattere “energetico” che va ben oltre il mero dato contingente, per sconfinare in quel senso di “assoluto” ove l’arte si sublima nei suoi esiti più alti ed arcanamente ineffabili.

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Antonino Longo
 
Rossi dicotiledoni
 
Nella singolare mostra saranno esposti lavori prodotti dall’artista, empedoclino di nascita ma palermitano di adozione, nell’ultimo anno. I papaveri sono i protagonisti incontrastati di questa nuova produzione esposta per la prima volta: campi rossi si alternano a campi verdi sui quali occhieggiano rossi e fiammeggianti papaveri anticipatori di estati  calde e assolate. Scrive, infatti, Francesco Musotto nella sua presentazione in catalogo: …”le opere di Longo sono, anche per un profano, aria buona da respirare a pieni polmoni, finestre aperte sulla natura mediterranea, che evocano una solarità genuina, indiscutibilmente contagiosa, candida pur se fiammeggiante. E sono la fiamma, il calore delle porpore e dei rossi, la vitalità del verde, le cifre della pittura dell’artista di Porto Empedocle, che la rendono subito emozionante, istintiva.”… 
E Domenico Portera nel suo testo presente in catalogo, scrive: …”splendente nel suo colore, appariscente, attraente nella sua flessuosità, il papavero è stato sempre rappresentazione del sonno e dell’oblio. E’ stato considerato nei piccoli e grandi misteri la morte e la rinascita.”…
La mostra è stata realizzata con il contributo della Provincia Regionale di Palermo e sarà visitabile fino al 13 maggio 2005 con orario dalle 17.00 alle 20.00 escluso i festivi.
 
STUDIO 71
L’addetto stampa
Mariella Calvaruso
 
 
Sabato 16 aprile alle ore 18.30, nei locali della galleria Studio 71 di Palermo, verranno presentate tre etichette realizzate dal Maestro Franco Nocera  per l’azienda vinicola Urso che ha sede a   Petrosino, uno dei comuni più vitivinicoli d’Italia.  
Le etichette,  firmate di pugno dall’artista, caratterizzano la produzione dei Vini d’autore 2004:
 
 Grillo, Grillo Ambra e Nero d’Avola
 
Tali vini, accompagnati da una brochure (curata dalla galleria d’arte Studio 71), sono presenti alla importante rassegna Vinitaly di Verona a conferma dell’impegno e della cura che l’Azienda Urso ha profuso in questa operazione di immagine della Sicilia nel campo imprenditoriale e artistico.
Scrive Vinny Scorsone nell’elegante presentazione “Come vino sgorgante da fonte, la pittura di Franco Nocera si riversa sulla tela, intensa nei colori e nei riflessi ambrati o rosso rubino. L’impasto cromatico si liquefà sui corpi incandescenti dei giovani amanti, si fa carezza, incendio disegnando composizioni forti come il sangue e invitanti come limpide acque. Sospesi in una dimensione intermedia tra il reale e il fantastico. “gli attori” di queste rappresentazioni iconografiche si inebriano di pigmento, si fanno interpreti di sogni intimi normalmente inespressi. La figura femminile falsa protagonista di queste opere (tre in tutto), è il centro visivo di composizioni ludico-amorose che ammiccano allo spettatore, invitandolo a condividere momenti intensi, per poi subito dopo, riturarsi sottolineando un confine tra la sfera pubblica e quella privata, che mai dovrà essere superato o condiviso realmente con alcuno. Eros in progressione di forme e personaggi. Il sogno solitario diviene gioco a due per poi sconfinare in un incontro a tre di cui, però, la coppia rimane il perno imprescindibile, all’interno della quale dominano, soprattutto, i sentimenti sinceri e la passione. 
Nel corso della serata  interverrà il Prof. Aldo Gerbino, sul tema “Arte e vino” Le opere saranno esposte fino al 23 aprile 2005 – orario dalle 17.00 alle 20.00
 
Palermo, 04/04/2005

 

 
 
 
Il 10 gennaio 2005 ha rappresentato una data storica per i fumatori. Vietato fumare, si legge, ormai, dappertutto. Al ricordo di quella che, ancora oggi, è una delle più grandi passioni di molti italiani, la galleria Studio 71 di Palermo ha deciso di dedicare una mostra.
Sabato 26 febbraio 2005 alle ore 18.00 presso la galleria d’arte Studio 71 Via V.zo Fuxa n. 9 Palermo verrà inaugurata la mostra di fotografie di Maria Pia Lo Verso dal titolo:
 
Una questione di fumo
“luoghi e fumatori di tabacco in Sicilia”
 
 
La mostra raccoglie circa 30 scatti fotografici realizzati da Maria Pia Lo Verso nel corso di alcuni anni.
Le tabaccherie siciliane e i personaggi del mondo dell’arte, colti nei momenti rituali che caratterizzano il fumatore, sono i protagonisti di questa interessante mostra, realizzata anche grazie al contributo della Federazione Italiana Tabaccai. 
“… Immagini che ci accompagnano alla scoperta dell’arte e del piacere del fumare. Attimi intimi di fumatori ignari e talvolta assorti colti dall’obbiettivo ..” come scrive il Segretario generale della FIT Sergio Baronci nella sua presentazione del catalogo. 
E ancora Vinny Scorsone: “…Questa mostra non vuole essere un inno al fumo, ma un omaggio a ciò che il tabacco e le tabaccherie hanno rappresentato per tante generazioni e al fascino che, nell’immaginario comune, continuano a produrre.
Provate a pensare: Che cosa sarebbero James Dean, Marlon Brando, Humphrey Bogart, senza la loro sigaretta? E una bella partita di poker senza la cappa di fumo e un bicchiere di liquore? Perderebbero sicuramente parte del loro fascino. L’immagine del bel tenebroso, negli anni passati, è sempre stata accompagnata da quel cilindretto (spesso arrotolato a mano personalmente) che penzolava dalla bocca e gli anni ’50 e ’60, in particolar modo, hanno contribuito a creare nuovi miti e stili di vita tendenti ad associare al fumo la figura del ribelle da emulare. …” Mentre Aldo Gerbino nella sua presentazione in catalogo: “…Pia Lo Verso ci sottopone i suoi scatti nel cromatismo dell’istantanea. Vengono così offerte rivendite di tabacchi: da quelle storiche risalenti alla Palermo liberty (Ribaudo, Vicari), poste nella piazza dove s’erge il monumentale teatro Massimo, alle altre disseminate nel centro storico, e ancora a quelle dell’entroterra e in altre coste della Sicilia. Un invito, questo procedere di Pia Lo Verso, nel mondo del tabacco (dall’auge alla crisi), e, soprattutto, alla trasformazione del luogo di distribuzione in banco del lotto e delle corse, vendita di materiali affini, e sempre meno luogo di ritrovo per la esaltazione e la liturgia del fumo. …” La mostra resterà aperta al pubblico fino al 25 marzo 2005 orario dalle 17.00 alle 20.00 escluso i festivi.
 
                                                                                                                                                                  L’A.S Mariella Calvaruso
 

Recensione

Per uno di quegli strani casi della cronaca, una mostra sul fumo (e sui fumatori) coincide con la promulgazione di una severa normativa anti-fumo.
Una coincidenza certamente non voluta, quella fra i due eventi, ma non per questo meno significativa e rorida di evocativi simbolismi.
Infatti, mentre un ondata di rigorismo salutista sta per spazzare il fumo definitivamente fuori dai locali pubblici, per una sorta di imprevisto sincronismo, questa carrellata di scatti fotografici realizzati da Maria Pia Lo Verso ne immortala (consacrandoli) alcuni noti santuari – cioè le tabaccherie – nonché i voluttuosi cultori nicotinici – ovvero i tabagisti –, quest’ultimi accuratamente scelti fra artisti, galleristi e critici d’arte variamente sfumacchianti.
Proprio le rivendite – che non a caso sono state selezionate fra le più antiche di Palermo e di altre parti della Sicilia – costituiscono la testimonianza d’una – per così dire – “epopea” ormai svanita, nella quale il fumo era una prassi quasi rituale, riservata – nelle sue forme più qualitative – a cerchie assai ristrette e codificata da rigorose forme di etichetta. Nessuno, infatti, in altri tempi – per altro nemmeno assai lontani –, si sarebbe mai sognato di fumare a tavola, fra una portata e l’altra, disturbando con la propria nevrotica dipendenza da nicotina gli altri commensali; né, tanto meno, alcuno avrebbe acceso un sigaro, una pipa o una sigaretta, in presenza di una signora, senza prima averle chiesto – come d’uopo – il permesso. Ma i tempi cambiano, e con essi – in peggio – anche le abitudini.
Così, come si è andato svilendo l’uso del tabacco (in parallelo alla sua sempre più ampia diffusione, che oggi vede coinvolti fumatori vieppiù giovani ed anche il dilagare di questo vizio fra le donne), inevitabilmente si sono trasformate le tabaccherie, che da eleganti luoghi di culto – ridondanti di raffinatezze d’ogni tipo, quali preziose pipe o profumatissime miscele di tabacco o altrettanto olenti Avana o ancora accendini che erano piccoli prodigi di estetica e meccanica – sono divenute dei micro-ipermercati, ove è possibile acquistare un po’ di tutto – dalle schede telefoniche ai giocattoli, dai profumi ai dolciumi confezionati – con buona pace dei più puristi adepti della fede tabagista.
Dissoltasi in una nuvola di fumo consumistico l’era dei “sali e tabacchi”, nella quale le rivendite erano anche dei luoghi aggregativi (come testimoniato dal delizioso film Smoke, che però ha una tipica ambientazione newyorkese), ai fumatori non resta che il rifugio in più o meno tristi compulsioni solipsistiche, permeate da un aspetto di nevrosi ormai assai più rilevante d’ogni altro contenuto cultuale.
Sarà per questo, che i vari personaggi fotografati da Maria Pia paiono – in molti casi – i solitari epigoni di ritualismi quotidiani, non più officiati in un meccanismo di condivisione, ma in una sfera di ripiegamento solipsistico ove ogni rivolo di concentrazione finisce con il confluire in una gestualità assorta e distaccata.
Ecco allora Ibrahim Kodra fare un “tiro” ad occhi chiusi, centellinando l’orgasmico piacere che ne deriva, o Aldo Gerbino macchinare attentamente con la sua pipa, estraniandosi del tutto dal mondo circostante, o ancora Cathy Marino sospendersi in un gesto di meditazione, celando lo sguardo estatico dietro nere lenti antisole.
Fumatori tipici (e forse anche archetipici), chiamati a testimoniare, con la loro mimica così pregna di sfumature psicologiche – insieme a tutti gli altri in questa mostra immortalati –, di quel complesso e contraddittorio rapporto con il fumo (irrisoltamente dipanato fra scelta consapevole e incontrollata dipendenza, e pencolante fra molteplici e transitori modelli socio-culturali) che alimenta il desiderio di fumare e che costituisce – a tutt’oggi – un insondato e probabilmente insondabile mistero.
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