Fiammetta Bonura e Dario Panzica 
  DI TERRA E D’ACQUE
Personali di Fiammetta Bonura e Dario Panzica 
 
Quello con la natura è un rapporto pressoché obbligato per ogni artista.
Si tratti di convinti seguaci del verbo figurativo o di teorici del più esasperato lessico astrattista, tanto in un caso, quanto nell’altro, il riferimento al mondo naturale – inteso in tutte le sue classiche componenti: animale, vegetale e minerale – è un passaggio imprescindibile, cui nessuno può sottrarsi ai fini d’una profonda e completa ispirazione.
Non vi è infatti immaginario artistico che possa essere considerato esente da un tal tipo di contaminazione; anzi – a voler essere più chiari –, non v’è immaginario che non sia in qualche modo strutturato e plasmato sulle suggestioni mutuate dalla nostra grande madre.
Non si sottraggono a tale significativa influenza nemmeno Fiammetta Bonura e Dario Panzica, i quali, proprio sull’intenso dialogo intessuto con l’ambiente naturale, hanno edificato interamente la corposa espressività del loro articolato gesto artistico scultoreo.
Non è quindi un caso, che il titolo delle loro parallele personali sia, per l’appunto, Di terra e d’acque, come a voler sottolineare la diretta filiazione delle opere qui esposte dal fertile grembo della madre di ogni cosa.
Un confronto – quello con la fonte ispiratrice – che in Panzica assume i connotati “morbidi e avvolgenti” della mimesi formale, seppur rivisitati con un poetico e intimistico ripensamento soggettivo, mentre in Bonura si configura quale serrata e asperrima dialettica, dagli esiti scabri e spesso assai sofferti.
Peltaster (una stella marina in bronzo confitta nell’arenaria smussata e dilavata), Albero (un bronzetto di efficacissima sintesi formale) o il raccolto e meditativo Tuffatore (anche questo un bronzo gittato con armonico senso delle proporzioni, ma egualmente corredato di profonde sfumature psicologiche) sono infatti le tangibili dimostrazioni con cui Panzica dà prova d’un approccio lessicale che, pur non indulgendo a compiacimenti o a manierismi naturalistici, si caratterizza per una interessante volontà di sperimentazione – soprattutto nell’accostamento di diversi materiali – tuttavia mai debordante dai rigorosi perimetri della classicità. Viceversa, Macchina d’assedio, Angolo offensivo II, Torre d’avvistamento (tutti bronzi dal totemico e imperioso slancio verticale), con la loro spigolosa e aguzza volumetria – del resto assai coerente con la “bellicosa” onomastica che li caratterizza –, sembrano testimoniare d’un rapporto di violenta e intensa fisicità intercorso fra la Bonura e la materia da essa plasticata, che trova nel lacerato ma euritmico trattamento delle superfici  (in termini di geometrico e petroso comporsi di taglienti estroflessioni e di improvvise rientranze) un linguaggio decisamente meno ancorato a canoni convenuti (facendo salva la lezione di Arnaldo Pomodoro), ma non per questo meno in grado di penetrare l’essenza lucreziana della natura: ovvero il suo essere al contempo una madre e una matrigna.
Due diversi modi di “sentire”, la cui assoluta complementarietà costituisce l’ulteriore conferma di come si possano legittimamente percorrere diversi itinerari – e tutta la produzione artistica attuale pare confermarlo – sospinti però da analoghe impellenze di carattere espressivo.

 

 
 
Ilario Quirino 
 
Le vibrazioni cromatiche della natura
 
Sono esposte 23 opere inedite realizzate dall’artista in questo ultimo biennio e dedicate alla natura. Uomini-albero, come scrive Vinny Scorsone nel suo testo in catalogo, “(…) foglie, paesaggi, si materializzano sulla superficie pittorica movimentando non solo lo spazio interno al quadro ma anche quello prossimo ad esso. Ogni pennellata sembra essere un’onda magnetica che si propaga nel vuoto colorando i pensieri di chi osserva.
Mentre in alcuni dipinti le campiture cromatiche appaiono controllate e racchiuse in binari e recinti, in altre esse si frantumano in segmenti luminosi che danno alla tela un apparente movimento, scaturito dalle pulsioni interne dell’opera stessa.
Nei lavori di Quirino i colori sono ben distinti tra loro, come se ci fosse un desiderio latente di incontaminazione, che lo porta a concepire il quadro come un insieme di singole unità in cui, pur sovrapponendosi, le stesure di pellicola pittorica mantengono intatte le proprie caratteristiche espressive. Nel turbine di queste frammentazioni, Quirino sembra non riuscire a rinunciare al blu che, giocando con la propria gamma, dà vita a profonde indagini spirituali e a leggère serenità mentali. Partendo dal celeste e percorrendo le vaste tonalità del turchese, dell’azzurro e del blu oltremare, egli approda, infine, al blu di prussia in grado di inghiottire ogni cosa.
Molte volte le opere di Ilario Quirino sembrano quasi campi di battaglia in cui l’antica lotta tra l’essere e l’apparire e i millenari tormenti dello spirito prendono forma attraverso l’accostamento improvviso di tinte calde e fredde.(…)”
 La mostra resterà aperta fino al 23 ottobre 2004 con orario dalle 17.00 alle 20.00 di tutti i giorni.
 
                                                                                                                                                                                    Mariella Calvaruso
    
La Recensione della Mostra
L’esibita pirotecnica cromatica parrebbe indicare una incoercibile pulsione psicoreattiva.
Ilario Quirino, infatti, non è soltanto un pittore, ma è anche un medico legale; il che costituisce – di per sé – una causale più che fondata per l’adozione di tavolozze assai prolisse e fiammeggianti. La triste durezza della sua professione, tutta improntata allo stretto contatto col dolore e con la morte, non può non averlo segnato, finendo con l’influire significativamente sulla scelta d’un lessico pittorico ridondante – nel senso migliore del termine – di garrule e vistose sarabande coloristiche.
Stesi puri, in accostamenti netti e assai decisi che non indulgono a mediazioni timbriche od a liquidità tonali, i pigmenti utilizzati da Quirino, col loro abbacinante fluire, sembrano dunque testimoniare d’una esibita volontà di ricostruzione visuale del mondo, operata in chiara antitesi con i grigiori e i mezzi toni fin troppo dominanti nella quotidianità.
Volti, paesaggi (indifferentemente invernali, mediterranei o esotici), infiorescenze varie, vegetazioni opulente, tutti rigorosamente declinati con un caleidoscopio di incandescenti cromie e con una ibridata e apparentemente antinaturalistica morfologia (che prevede spesso incroci fantasiosissimi fra piante, uomini, animali e fiori), non sono pertanto che la palpabile riprova di questo radicale ripensamento della natura, posto in atto da Quirino attraverso l’empatico ascolto di quel murmure vibrante che la percorre nel profondo.
Ed è in fondo irrilevante, che il gesto di Quirino rievochi lessici ed atmosfere da avanguardie storiche – dei Fauves, in particolar modo –, poiché la genuinità del sentire (e quindi del pensiero conseguente) prescinde da manierismi o citazioni, rivelandosi all’osservatore in tutta la propria dirompente e sincera forza di comunicatività.
Cromaticamente affabulatorie, le tele del pittore cosentino evocano quindi una dimensione arcana ed incantata – non a caso, pertinentemente, Vinny Scorsone, curatrice della mostra insieme ad Aldo Gerbino, ha fatto riferimento al mozartiano “Flauto Magico” –, totalmente depurata da cascami e orpelli realistici e nella quale domina la più pura e sfrenata fantasia. Dimensione utopica e catartica, in cui l’occhio finisce col disperdersi nei racemi coloristici e la mente può vagare liberata alla ricerca della sua vera identità.
 

 

 
 
La FONDAZIONE GIUSEPPE MAZZULLO Palazzo Duchi di Santo Stefano – Taormina tel. 0942 610276
e la GALLERIA D’ARTE STUDIO 71 Via V.zo Fuza n. 9 90143 Palermo tel. 091 6372862
 
Sono lieti di comunicare che da sabato 28 agosto 2004 dalle ore 19.00 sarà possibile visitare  presso la Fondazione Mazzullo di Taormina la mostra collettiva:
 
PERCORSI INCROCIATI 
a cura di Marcello Scorsone
 
Saranno esposte opere di Antonella Affronti – Alessandro Monti – Antonino G. Perricone e Gianni Maria Tessari, quattro artisti diversi che in questa mostra colgono l’occasione per fare gruppo confrontando le loro esperienze e le loro ricerche.   
 
Antonella Affronti Si dedica sin da giovanissima al disegno e alla pittura partecipando a mostre collettive. La sua prima mostra personale risale al 1982 a Palermo e nello stesso anno è invitata alla “Salerniana” di Erice dove conosce il critico d’arte Albano Rossi che la seguirà per qualche tempo. Seguono negli anni mostre a Mantova, Malta, Ravenna e alla ‘Ca D’oro di Roma dove conosce Bruno Caruso e lo scrittore Costanzo Costantini.
Nel 1995 è presente alla prima rassegna arte fiera di Palermo. Nel 1996 entra a far parte del gruppo artistico “2001” di Marsala. Di questo periodo sono innumerevoli le mostre itineranti, personali e collettive. Vive e lavora a Palermo.
 
 
 
Alessandro Monti Le evanescenze che un tempo erano date dal colore, oggi sono figlie della sabbia. I sogni si sono fatti più concreti, ma il silenzio continua a dominare la scena.
Monti, nella sua vita, credo che non abbia mai dipinto istanti fugaci nel tempo. Ciò che ha sempre caratterizzato quest’autore è la “lentezza” delle sue “apparizioni”. Ogni dipinto e’ una porta socchiusa, un narratore che incanta il suo pubblico. Sono flash dilatati nella dimensione temporale di una esistenza, contenitori di racconti dimenticati dal proprio affabulatore, frasi riportate in vita solo dal chiarore lunare che restituisce all’inchiostro, sbiadito dal trascorrere delle stagioni, l’antico vigore.(Vinny Scorsone - dalla presentazione in catalogo della mostra presso la galleria Studio 71 Palermo). Vive e lavora a Roma.
 
 
Antonino G. Perricone Dal 1955 espone le sue opere in mostre personali e collettive in Italia e all’estero con notevoli consensi di critica. La sua grande passione per l’arte lo porta ad aprire una galleria d’arte a Palermo “El Harca”, esperienza che durerà dal 1963 al 1968; in quegli anni si rende promotore di una borsa di studio per giovani diplomandi del Liceo Artistico e dell’Istituto d’Arte di Palermo. Nel 1965 insieme a G. Denaro, G. Leto, Antioco e Caruso costituisce la scuola pittorica dei materocromatici. In passato ha collaborato con la rivista Palermo e attualmente con la Galleria d’arte Studio 71 di Palermo.Vive e lavora a Palermo.
 
 
 
 
 
Gianni Maria Tessari Già musicista, ora pittore ha esposto in Italia e all’estero. Si interessa allo studio di psicologia della percezione. Nel 1988 pubblica con la Casa Editrice Com’MEDIA di Torino, il suo libro d’artista “Città Quadro”. “…Figure disfatte che vanno a rarefarsi, scorrono veloci in superfici apparentemente immobili Tra le maglie di questa trama intessuta dall’artista si espandono immagini liquide che si trasformano, colano in un incessante ribollire di pigmento magmatico. Queste sono le rappresentazioni del tempo relativo, quello di cui noi stessi ci accorgiamo, che ci passa addosso lasciando i segni del suo transito. Passato, presente e futuro si incrociano come entità inesistenti rendendoci schiavi di una condizione puramente fantastica…” (Vinny Scorsone dalla presentazione in catalogo per la mostra di Castelbuono allo spazio d’arte Cycas). Vive e lavora a Torino.
La mostra si concluderà il 9 settembre 2004 – orari della mostra: dalle 9.30 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00 tutti i giorni ed è stata realizzata in collaborazione con la galleria Studio 71 di Palermo.
Mostra testi e schede a cura di Vinny Scorsone.
L’addetto stampa
Mariella Calvaruso
 
 
 
ALESSANDRO MONTI
Mostra Personale 
 
Fino a giugno sarà possibile visitare, presso la galleria "Studio 71" la personale di Alessandro Monti, artista che vive ed opera a Roma.
L’asserzione, tutta spirituale, di Alessandro Monti, si attesta nella sua appartata pregnanza linguistica, quasi in un fluire lento, assorto, condotto, gentilmente per mano, nella fluviale dispersione di un animo che contempla se stesso. Poi, passa all’osservazione analitica dell’altro, del contiguo, predisponendosi, in tal modo, alla recezione di un sommesso brusio di quanto ci circonda: ora terra, animale, ora traccia dissepolta di uomo. E c’è da osservare in che modo l’attuale operare creativo di Monti si pone nel diagramma di una continua, dialettica contrapposizione espressiva, per localizzarsi,a lavoro ultimato, nell’odierna necessaria armonia.
Altre volte si rivolge all’assolutezza d’una ricerca fatta di continui equilibri, avvertiti in tutta la loro precarietà, tra gli adusi accadimenti del quotidiano. Ecco, allora, che "nella sera incredula" (2002) si apre una sorta di prologo alla poetica di questa rastremata condizione: l’icona dispersa nel reticolo di un linguaggio arcano, d’un sottile velo labirintico appena emerso dalle nubi coscienziali.
Una spartizione territoriale si condensa, subito, in questi lavori: un confine ligneo che attraversa il corpo della tela e ne corrobora il valore simbolico, il suono stesso di vaghi ornamenti, innervazioni, simulazioni di figure, idee, tralci appena percepibili. Tale linguaggio si sposta, spesso, sul diagramma di un’acquisizione fatta della materia del suo "dire " costante: una ipertrofia di sostanza legnosa dispersa sulla superficie, costituendo ("nello sguardo il richiamo", 2002) un addensato monocromatico, con tenui sfumature dove la trama terrestre si orienta verso i margini indistinti della percezione interiore.
Altre volte lo spazio appare decisamente trafitto, corroso da un’assonometria definita, quasi un voler restituire elementi plastici nel sollevamento della superficie, un incremento della forza del trasmettere. Così, non a caso, tale ricerca, sottolinea certe contiguità con le aree di linguaggio arcaico, forme di vaga suggestione singlossica, che sarebbe piaciuta alla ricerca di Accame, alla simbologia intrinseca ad ogni esotratto, affinché la stessa morfologia dei marchi qui espressi riconducano, oggi, alle avvertite esigenze disposte tra la scrittura, l’eco insonne della parola e la raffigurazione. Un approdo alla totemica lacerazione racconta l’attualità di questo percorso, ripristinando sensazioni modulari già poste negli anni Ottanta, sulla carta, da Giorgio Bompadre, proprio attraverso la grammatica della lacerazione visiva, qui, in aggiunta, della possibilità dinamica mediata da epidermiche tattilità, rivolta anche ad una certa tensione amorosa, sensuale, colma, però, di un vago inespresso dolore. Ecco, infine, avvertirsi le più forti accensioni cromatiche tra verticali ferite dello spazio, germinanti in un tessuto vascolare offerto come alimento del desiderio, dell’elevazione ideale ("l’intenso richiamo" e "in terra di confine", 2003). Di colpo, poi, il modello di Alessandro stravolge il precedente linguaggio; una sacralità soffusa pervade lo scenario: ora in senso oracolare, ora sorretta da note indistinte di poetici respiri.
 
 
TOTO'  VITRANO
"Il furore creativo del fuoco"
dall'8 al 27 maggio
 
C’è, in quel di Partinico, un metallurgo efestino che ama ripensare la natura a somiglianza del proprio immaginario.
Nella sua – riteniamo – fumosa fucina, Totò Vitrano forgia il metallo, morbidamente plasmandone le taglienti durezze in biomorfismi di laminare spessore o articolandone le modulazioni in fantasiosi assemblaggi di più ariosa e volumetrica spazialità. Al suo tocco sapiente, dunque, l’inerte materia pare avvivarsi e così – riscattata dalla bruta natura che la contraddistingue – assurgere a nuova dimensione, divenendo morfologicamente palpitante e iperdinamica.
Non è quindi un caso, che le superfici delle sue opere appaiano sistematicamente punteggiate di tracce e segni di simulata ascendenza fossile, come dovuti al materico sedimentarsi di organismi microscopici e ameboidi, né tanto meno può sorprendere il ricorrere di ossidazioni rugginose, quale sintomo evidente d’un continuo trasmutarsi del metallo quasi fosse cosa viva.
Mulinando il suo elettrodo da “Vulcano tecnologico”, Totò infatti anima le lamiere predilette, operando su di esse un autentico e accurato lavoro di ricamo e di traforo fino a trasformarle in racemi fitomorfi o in sagome totemiche e allusive. La trasmutazione alchemica può giungere in tal modo al suo pieno compimento, lasciando il simbolico residuo dell’idea fattasi forma compiuta e sviluppata. E tutto ciò in virtù del fatto che quella di Vitrano non è semplice “creazione”, ma piuttosto travagliata e complessa ideazione, messa in atto attraverso un proceder faticoso – per aspera ad astra – che abbisogna di ripetute prove e continui esperimenti.
Lo dimostra, d’altronde, il copioso corredo grafico che accompagna i suoi molteplici lavori (sculture e rilievi a sbalzo), ovvero quell’insieme di carte sulle quali ogni segno sembrerebbe tracciato con furiosa compulsività, come in preda ad una irrefrenabile e inconsulta trance dionisiaca. Ma il gesto, in vero, a ben guardare, è tutt’altro che dovuto al caso o all’azione di qualche “daimon”. L’artista-mago, infatti, segue sempre il filo dei pensieri, gestendo con sapienza le emozioni.
Non semplice catarsi, dunque, ma progetto; concretizzarsi fattivo dell’immaginario in simulacri durevoli, destinati a divenire vestigia ben visibili  del proprio “transito” nel tempo.

          La mostra è stata curata da Vinny Scorsone

 
 
GIUSTO  SUCATO
Personale "Passio - dai giorni della sofferenza"
Dal 27 marzo al 20 aprile 2004
 
 <<......Nel corso del tempo molti artisti hanno affrontato il tema, così delicato, della passione di Cristo, sviluppandolo ciascuno a seconda delle proprie conoscenze e della propria sensibilità........>>
<<....In queste opere di Giusto Sucato c'è una violenza fulminante che colpisce lo spettatore in pieno viso. Centinaia di chiodi ritorti (i più dei quali fabbricati manualmente), si conficcano nelle tavole stillando sofferenza.  Quelle stesse tavole sono il corpo di Cristo, sono la nostra cara terra trafitta dalla stoltezza umana.  Nella visione di Sucato, Gesù è il nostro pianeta. Così le spine della corona divengono piogge acide che bruciano il suolo; i chiodi inflitti la barbarie che è nel mondo; gli squarci e le ferite, le bombe che devastano il pianeta. ....>>
                                                       
 
 
Giusto Sucato è un artista autenticamente immaginifico e al contempo genuinamente irregolare. Una irregolarità – la sua – non programmatica né di maniera – come tante, pianificate a tavolino, in cui è dato spesso imbattersi –, ma che sgorga spontaneamente dall’inestricabile intreccio fra predisposizione naturale e profondi vissuti antropologici.
Il suo essere un artista nato ed operante in un piccolo contesto provinciale – Sucato è di Misilmeri – ha sicuramente influito (in questo caso positivamente) sul suo percorso artistico, consentendogli una maturazione fuori dai canoni più classici ed istituzionali e determinando per ciò l’elaborazione d’uno stilema estremamente peculiare. Il lessico di Giusto è, infatti, un “parlare” assolutamente contaminato e di grande ibridazione, in qualche modo “ante litteram” rispetto alla più recente diffusione del meticciato linguistico nel campo delle arti visuali. Ed è un eloquio in cui convivono, ben amalgamati, l’alto e il basso, le scorie d’una consolidata tradizione – quella che parte, almeno, da Duchamp, col noto “Orinatoio”, e che passa per tutte le operazioni di “riciclaggio” di materiali disparati che hanno segnato l’intero novecento – e le vestigia d’una nobile cultura popolare, in una armonica mistura che non pecca mai di intellettualismo né pencola in alcun modo verso la più vieta e scontata naiveté.
Sucato assembla oggetti e materie di svariato tipo e provenienza, nel rispetto d’un principio naturale d’equilibrio che gli consente il raggiungimento di interessanti ed inattesi esiti estetici e concettuali. Egli pare operare – si suppone inconsciamente – nel solco teorico del recente principio della “complessità”, per cui – in sintesi – “un dipinto è qualcosa di più significativo della semplice somma dei colori che lo compongono”. Per dirla con le parole dell’economia, Giusto Sucato è palesemente in grado di conferire un “valore aggiunto” di natura artistica ai suoi assemblaggi, riscattando in pieno i materiali utilizzati dalla loro arida e bruta fisicità. Basta guardare le opere attualmente esposte alla galleria Studio 71, per averne chiara e piena contezza. Proprio il tema della “Passione” – per sua natura e tradizione estremamente impegnativo –, su cui è incentrata l’intera mostra, conferma le doti di Sucato, esplicitando la non comune attitudine alla manipolazione della materia inerte, in tal modo “trasmutata” in pregevole manufatto artistico.
Particolarmente sobri e rigorosi, questi assemblage di Sucato giocano sulla patente “durezza” dei materiali – prevalentemente di metallo – e sul simbolico contrasto cromatico fra i vari componenti, contraddistinto da inquietanti esplosioni di rosso vivo sul grigiore prevalente. Chiodi, frammenti di sbarre, segni graffiti e marchiati, lettere d’un alfabeto immaginario (caratteristica assolutamente peculiare di Sucato, che se ne avvale in termini soprattutto strutturali) concorrono a trasmettere una idea di violenza e martirio di massima efficacia psico-visuale, e ciò senza  mai cedere in alcun modo alla facile retorica.
Un po’ lontano da certe precedenti sperimentazioni – nelle quali prevaleva l’uso del legno e delle scritte immaginarie, però con qualche eccessiva ridondanza e verbosità –, ma sempre fedele al suo lessico personalissimo, Sucato offre, attraverso queste nuove opere, un saggio inoppugnabile della propria maturità e della possibilità di esplorare tematiche più che abusate con una freschezza inventiva ed una penetranza visuale non comuni. E questo, senza alcuna prolissa magniloquenza, ma restituendoci in toto l’estrema profondità emotiva d’un dramma umano nonchè la soggiogante enormità d’un insondabile mistero.  
 
 
SERGIO  FIGUCCIA
Personale "I Solidi Ignoti"
 
Il fascino dichiarato per la valenza totemica della pietra, per la sua entità monolitica e imponente, per la sua esibizione architettonica, suggeriscono, in questo lavoro “in fieri” di Sergio Figuccia, un bisogno di testimoniare il mondo in cui ci troviamo immersi, sottoposti a intense emozioni percettive. Ma anche sollecita la testimoniata esigenza di cogliere l’emblema favolistico di trascorse culture, l’interezza del mito che pervade le nostre visioni del mondo trascorso e della cultura, capaci di permearci.
Questi spatolati acrilici, resi nel loro frammento di “puzzle”, vogliono confidarci il desiderio ludico in una continua rivisitazione, ora del passato ora di quella condizione coloristica intensamente partecipata dall’autore. Il desiderio di costruzione delle icone, la solarità imperiosa, il portato fatto di macerie, di emblemi litici, la vocazione spinta alla sacra disponibilità dell’eterno, suggeriscono a Figuccia una visione arcaica, primitiva nel suo “vedere” il mondo.  Un’esigenza “proto-fauve” , o forse, di onirico iperrealismo, sottolineano quei segni del corpo del disegno legato a trascorsi substrati, sedimentati sin dalla prima metà del Novecento.
Comunque, oggi, tensione e contrasto di pigmenti vivono l’esacerbazione dei temi: muri, frontiere di pietra, civiltà sepolte, brani d’una scrittura geologica che affascina il primitivismo espressivo di questo pittore.  Uno scenario denso di materiali percettivi, raccolti e riversati con trasporto arcano, manuale, non rigenerati dall’analisi intellettuale, ma restituiti d’istinto nella loro interezza di primordiale messaggio iconico.
L’ironia che contrassegna il messaggio di Figuccia si attesta nella pienezza della geometria euclidea.  Una tensione aperta al tempo e allo spazio di auspicate e necessarie maturazioni, lanciata verso una sacrale visibilità del desiderio d’espressione.

Dal 24 gennaio al 14 febbraio 2004

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