LEONARDO  CARRANO
"Le potenzialità espressive del silicio"
 
…Non solo film o dipinti. Non cartoonist, non pittore. Carrano rientra in quell’accezione di artista che andava tanto di moda nel Rinascimento: colui in grado di progettare un’arma da guerra così come una saliera o un grande dipinto.”
E’ difficile non concordare con  quanto scritto da Vinny Scorsone nel testo di presentazione di questa mostra; è difficile, poiché gli interessi artistici di Leonardo Carrano spaziano ad ampio raggio, annoverando – con pari impegno – grafica, pittura e cinema d’animazione. E senza che ciò implichi – sia detto con chiarezza – alcuna negligente dispersione in una moltitudine di rivoli inconclusi, ma piuttosto rivelando una profonda capacità di scandaglio di ambiti diversi, con quel piglio sperimentale che è il sale e il fondamento d’ogni qualitativa attività artistica.
Non sorprende, dunque, che in questo allestimento si trovino a convivere – in un rapporto osmotico di esaustiva dialettica fra opposti solo apparenti – opere grafiche di gusto palesemente informale ed un video (per altro presentato all’ultima Biennale di Venezia) improntato ad un lessico dichiaratamente figurativo, ma depurato degli aspetti più veristici in favore d’una semplificazione della forma di marcata valenza simbolica.
Non v’è, infatti, contraddizione – a ben guardare – fra le  une e l’altro, proprio perché si configurano come una composita e ideale cartografia delle inquietudini che animano il sentire e l’agire di Carrano e che dovrebbero – in realtà – esser condivise (animandoci o, forse, semplicemente rianimandoci) anche da molti di noi.
Se nelle serigrafie, l’articolato andamento maculare dei neri che si dipanano sul chiarore degli sfondi pare alludere ad una dinamica interiore tendente ad affiorare per la sua incoercibile impellenza, nel video, invece, è la griglia razionale a prendere il pieno sopravvento, facendosi strumento funzionale d’una irretente estroflessione di profonde irrequietezze, ammantate – senza essere celate – con le vesti d’un onirismo rigoroso e al contempo incantato ed elegante. Il pretesto narrativo – con cui si apre e chiude la sequenza delle immagini – è il fantasticare d’un bimbetto intento a disegnare; un pretesto che consente a Carrano di liberare interamente il proprio immaginario, dando così corpo a non poche ubbie e a molti incubi relativi al nostro viver quotidiano. Grazie a un gioco di felici spiazzamenti visuali – da singoli particolari astratti si arriva, per progressiva estensione del campo ottico, a figure complete e intellegibili nel loro potere evocativo –, l’artista romano introduce gli spettatori nel suo dedalo di sogni ed allucinazioni, coinvolgendoli nel proprio “mood” con un simbolismo intriso di tangenze surrealiste, ma assai in linea con le sintassi estetiche – computergrafica e fantascienza soprattutto – della contemporaneità.
Carrano, dunque, con quello che si potrebbe ben definire un “aggiornato idealismo” mira a provocare intelligentemente lo spettatore, sospingendolo con raffinata sottigliezza a soffermarsi a riflettere sulle gravose problematiche dell’esistere individuale e sociale. Una provocazione che non pretende di offrire risposte esaustive, né vuol essere un proclama, ma semplicemente un invito a dare un personale contributo, in termini di partecipazione emozionale e narrativa, al flusso delle immagini. Scrittura aperta – questa di Carrano – con la quale si è quindi chiamati a interagire, a dimostrazione di come prioritario compito dell’arte non sia quello di indottrinare, ma quello di porre domande e suscitare dubbi, alimentando una dialettica compiuta fra opera e fruitore, all’interno della quale il fare artistico può giungere davvero al suo pieno compimento. 

dal 28 novembre al 14 dicembre 2003 vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 
Kaos  a  Studio 71
 
Sembra quasi un ribollir di sangue il Kaos di Perricone (cm 300 x 400) presentato l’8 novembre alla galleria Studio 71 di Palermo (testo in catalogo di Salvo Ferlito).
In questa sorta di retablo moderno, gravido è l’universo e una grande forza dirompe dal suo ovulo investendo e modificando tutto ciò che gli sta attorno. Flutti sanguigni di una nuova materia in formazione, prendono forma umana, poi scompaiono inghiottite dal flusso continuo di un mondo nuovo dove è già iniziata la lotta per la sopravvivenza. Una visione scioccante che sembra far toccare i poli opposti dell’inizio e della fine: la magnificenza della creazione e le atroci fiamme infernali. Si è così di fronte ad un insieme di forze che vorticano smovendo le corde dell’animo umano quasi trascinando l’occhio del fruitore dell’opera in una vertigine stendhaliana. Retablo, dicevo, poiché così identifica questo suo lavoro Perricone, sottolineando il suo lavoro con l’arte barocca e tardo rinascimentale; un polittico unico composto da 12 tavole.
Rosso fuoco, rosso vitale, rosso della potenza maschile, in una composizione in cui appaiono forme michelangiolesche e accenni di Bosch. Un caos in cui non vi è disordine (poiché non può esistere il disordine se ancora nessuno ha stabilito cosa sia l’ordine), tutto è organizzato, bilanciato e retto da un piccolo vortice posto poco al di sotto del centro fisico dell’opera: è lì che tutto si “crea”.
Questo nuovo lavoro di Perricone si riallaccia al precedente “lotta per la vita” esposto anch’esso alla Galleria Studio 71 nel 1996 e presentato dal compianto Francesco Carbone. Ma qui il discorso dell’artista vuole intavolare è più complesso, più deciso. Il suo Io esplode in una composizione fatta per tramandarsi. Essa è la summa il “testamento” di questo artista.
Maschile e femminile si uniscono, la forma si libera e cambia.
Legato all’assunto fisico di Eraclito secondo il quale “nulla si crea nulla si distrugge ma tutto si trasforma”, Perricone mostra un universo in divenire costante, non limitato a un preciso momento della storia dell’uomo e dell’universo, ma presente ogni giorno nella nostra vita poiché l’animo e il corpo umano subiscono continui cambiamenti. Inizio e fine si toccano senza provocare attrito ma fondendosi per creare una ciclicità eterna fatta di materia e di spirito.
 
Palermo, 9 Novembre 2003

 
ALESSANDRO DI GIUGNO FOTOGRAFO 
ovvero la fotografia  come pittura e narrazione  
 
Alessandro Di Giugno è quel che si dice un “artista colto”.
Il suo modo di concepire la fotografia lo colloca infatti, a buon diritto, in quel novero di operatori delle arti visive nei quali è palese il peso esercitato da una lunga tradizione. Una tradizione più pittorica, che squisitamente fotografica, come del resto attestano tanti dei suoi scatti, meditati e costruiti con quella meticolosa preparazione che è tipica proprio dei pittori.
Esente, nonostante la giovane età, da irruenze e immediatezze, Di Giugno elabora così le sue immagini, progettandole con cura certosina, per poi tradurle nel concreto grazie all’uso della camera.
Basterebbe osservare un suo grande autoritratto di qualche tempo fa, in cui si è abbigliato con camicia di pizzo e ha fatto uso di marcati contrasti chiaroscurali (con la figura che emerge parzialmente dalla tenebra d’intorno), per capire con chiarezza quanto egli abbia studiato la pittura del ‘600, con un occhio di riguardo per la luministica caravaggesca e per i suoi cascami sulla ritrattistica dell’epoca. Un’attenzione che si riverbera anche nella serie di nature morte esposte l’anno scorso nell’ambito della mostra “A sud niente di nuovo”, nelle quali il senso armonioso e misurato della composizione, il sapiente gioco di luci ed ombre, nonché l’atmosfera di misteriosa sospensione rimandano alla stagione degli “still-life” sei-settecenteschi con qualche contenuta contaminazione di ascendenza metafisica.
Che Di Giugno quindi guardi alla pittura, ancor prima che a referenti più squisitamente fotografici, è confermato, con evidenza non minore, dalle ripetute e recenti incursioni nelle tematiche di stampo socio-antropologico. Le fotografie dei pescatori dell’Arenella, realizzate in collaborazione con Scalia ed altri ancora, rivelano di fatto una certa distanza dal consuetudinario approccio etnografico, propendendo piuttosto per una articolata elaborazione narrativa, al cui interno i soggetti fotografati divengono i protagonisti d’una storia dai profondi risvolti psicologici. Un dato che si riscontra anche nei molteplici ritratti di storici e critici d’arte palermitani (visibili fino al 31 luglio alla galleria Studio 71), incentrati come sono su di una empatica – e non priva di umorismo – enucleazione del tratto caratteriale dal connotato fisiognomico, e narrativamente costruiti attorno alla fattiva collaborazione (e complicità) fra il fotografo e i personaggi immortalati. “Intellettuali” dei cui vezzi e vanità Di Giugno si rivela analista assai fine, assecondandone stranezze ed egocentrismi, sottolineandone – sempre con garbo – le smanie protagonistiche, e collocandoli con sagace pertinenza negli “scenari operativi” più adeguati, a dimostrazione d’una maturità artistica non comune in un ragazzo della sua età.
Racconti per immagini, dunque, quelli “scritti” da Alessandro Di Giugno; elaborati, scatto dopo scatto, secondo un criterio di impaginazione sequenziale che risponde a una progettualità assai ben cogitatata e mai lasciata al caso.
Lo prova con chiarezza la serie di fotogrammi del “Jardin Planetarie” (recentemente esposti alla Quadreria del Lotto di Trapani), profondamente permeati di gusto surrealista, ma mai slegati o frazionati in autonome visioni, concatenandosi alla perfezione, col loro intenso contrasto di colori, nel compiuto resoconto d’un immaginifico disagio esistenziale.
Un modo, quello di Di Giugno, di riportare la fotografia ai suoi aspetti più squisitamente artistici ed estetici, svincolandola così dal mero criterio cronachistico o pubblicitario troppo spesso prevalente e recuperando quelle valenze letterarie frequentemente sacrificate in nome d’una presunta (e spesso irrealizzabile) oggettività.
 
DERIVE 
 
L’instabilità sembra costituire fulcro su cui possano giostrare le “derive” della prassi  artistica, e dove, così come sottolinea Franco Spena, non sia più possibile riconoscere oggetti dell’arte posti a base d’una perennità espressiva, resa ormai impropria dall’iperbole della velocità. Allora questi autori, tutti cronologicamente accomunati dalla nascita negli ansiosi anni Cinquanta, trasfondono il loro itinerario creativo in un pieghevole ottico capace di entrare in sincretismo con pagine della comunicazione o del messaggio antropologico. Ciò realizzato in maniera intensa e personale, per cui il senso della ricerca, pur nella dimensione d’un agire artistico centrato nei canoni della sua stessa evoluzione, s’impone quale marchio non più eludibile. Una necessità prorompente si mostra subito in questa collettiva (“Derive”, galleria ‘Studio 71’, catalogo ‘Qal’at’ a cura di F. Spena, maggio-giugno): quella di subire il fascino del primigenio, d’una arcaica germinazione sia che ci si rivolga, come fa Calogero Barba, alla mitografia terrestre, sia che si utilizzi il marmo e il legno così come indicato da  Lillo Giuliana; sia chi (Lambo e Tulumello), attraverso plotter painting o tecniche miste, cerca armonie insite nella conflagrazione o nella iterazione. Altre volte, nell’agile pulsione e incisività di Giuseppina Riggi, il segno diventa messaggero trasparente, intermittenza e monocroma segnalazione di un effimero, quasi di un disagio coltivabile. Ancora la dimensione iconica, colma d’una ironia tragica, si esprime efficacemente nelle crude tavolette di Salvatore Salamone (“Lettera da Bagdad”, 2002). Qui segno e materia si associano nel trasmettere il corpo denso del loro lambire parole e gesti, ma anche nel denunciare una colpevole assenza. Una visibilità, che in Salamone s’attesta nell’interfaccia tra poetica classica e ricerca, posta in quel settore mediano offerto alla dimenticanza e all’irraggiamento perenne della parola. 
 
DERIVE 
Con lodevole coerenza, il gruppo di artisti nisseni – Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena, Agostino Tulumello –, che della attenta analisi dei linguaggi visivi ha fatto un obiettivo programmatico, continua nel suo interessante percorso, offrendo un ulteriore saggio delle proprie capacità.
Dal segno alla parola (di cui però viene esaltato prevalentemente l’aspetto semiotico), l’attento e quasi ossessivo scandaglio delle infinite possibilità espressive e comunicative insite in ogni traccia, lettera o lemma, con tutto il relativo corteo di ambiguità polisemiche, viene riproposto con chiarezza dalla serie di opere in mostra alla galleria Studio 71, inusualmente realizzate all’insegna d’una estrema levità e d’una apprezzabile ironia.
Da “Le Falesie di Isma” di Lillo Giuliana – un bassorilievo in candido marmo di Carrara nel quale l’intonsa austerità del bianco pare violata da una pioggia di minute lettere cadenti – alla “Babele” di Michele Lambo – un plotter painting su tela rievocante il movimentismo visuale dell’avanguardia futurista, ma assolutamente attuale nella sua fedele rappresentazione della contaminata confusione verbale del momento –, dalle “Lettere da Bagdad” di Salvatore Salamone – reinvenzione filologica delle antiche scritture cuneiformi mediorientali, che pare levarsi come un grido d’accusa nei confronti di chi, in nome di millanterie pseudo-democratiche, ha recentemente permesso lo scempio delle antichità irachene – a “L’uovo del giorno” di Calogero Barba – una installazione pregna di senso d’umorismo che, con le sue uova incartate da fogli del quotidiano “Il Giorno” e poste all’interno d’una culla, la dice lunga sulle “sorprese comunicative” riservateci dai media –, da “Il tempo di sempre” di Agostino Tulumello – meticolosa riflessione sulla seriale iteratività delle misure temporali, cadenzata con segni rarefatti ma implacabili nella loro inappellabilità – a “Poesia” di Franco Spena – un “ready made” di grande impatto ottico realizzato accumulando frammenti di lattine in una valigetta, quasi a voler enfatizzare le potenzialità inespresse occultate nelle pieghe dell’attuale profluvio di parole – e fino ad “Ecstasis” di Giuseppina Riggi – un susseguirsi di leggiadre pennellate su supporti trasparenti in grado di ricondurre il gesto artistico alla sua essenza comunicativa più minimale, diretta ed aeriforme, in una libera riconquista dello spazio spesso negata o limitata da più classici supporti –, è tutto un continuum di spiazzamenti psico-sensoriali, nei quali il riguardante è come indotto dall’ambigua molteplicità significativa dei significanti, perseguito con un sense of humor e una giocosità (in cui non è difficile ravvedere qualche tangenza dadaista) a dir poco encomiabili.
Una mostra – questa della galleria Studio 71 – che conferma, una volta di più, come si possano trattare tematiche estremamente impegnative senza eccedere in tetraggini o tediosi rigorismi, ma piuttosto liberando la più fantasiosa ideatività in una sarabanda ludica (tuttavia mai superficiale) capace di coinvolgere a fondo gli osservatori nell’analisi di problematiche altrimenti del tutto trascurate dalla pubblica opinione.
 Fino al 10 giugno

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 ELSA MEZZANO
"Ritratti"
La ritrattistica, si sa, è arte antica.
Spesso connotata da un insistito gusto fisiognomico, quasi a voler cogliere (e questo ben prima delle derive positivistiche di stampo lombrosiano) anche nel minimo scarto somatico ogni corrispondente recesso della psiche, essa è da sempre deputata a immortalare i personaggi più significativi di ciascuna epoca, tramandandone, nei suoi esiti più alti, più il profilo psicologico, che la verità delle fattezze (si pensi, per fare qualche esempio, a Tiziano, Rembrandt, Goya o a Nadar per la fotografia).
Non sfugge a tale intento neanche l’opera di Elsa Mezzano, fotografa torinese che ha “catalogato”, nella sua ideale raccolta personale, alcuni dei più rappresentativi esponenti del mondo culturale degli ultimi decenni.
Una autentica galleria di “intelligenze” di cui Elsa Mezzano è stata in grado di fissare al meglio anche la più impercettibile sfumatura caratteriale, offrendone agli osservatori l’essenza più autentica e profonda.
Ecco allora la giovialità, quasi clownesca, di Gonzalo Alvarez Garcìa, la pensosità, gravida di preoccupazioni, dell’esule iracheno Younis Tawfik, l’(auto)ironia della Covito, la penetranza alla Maigret dello sguardo di Aldo Gerbino, la assorta meditatività di Bonito Oliva, l’inquietante magnetismo di Del Guercio o la mimica estroversa e tutta sicula di Buttitta.
Una sequenza di scatti, dunque, che confermano la qualitativa vocazione ritrattistica della Mezzano (capace, in vero, di altrettanto suggestive foto paesaggistiche) e che ne fanno una importante testimone del tempo che viviamo, destinata, con la propria opera, a tramandarne i mille volti alternatisi sul suo proscenio culturale.
Non è un caso che proprio Gonzalo Alvarez Garcìa, nel presentare questa mostra, abbia così scritto:<<Questi ritratti fotografici di Elsa Mezzano sono biografie istantanee, racconti veloci come fotogrammi. Il sostantivo ritratto, dal latino retràhere, ha tra i suoi significati quello di estrarre e di tirare indietro: esprime la volontà del fotografo di estrarre qualcosa dal suo segreto nascondiglio e di fermare qualcuno che, se non trattenuto dall’artista, rischierebbe di precipitare nel mare dell’oblio>>. A ribadire, quindi, la non comune inclinazione ad eternare i tratti e, attraverso essi, anche gli “affetti”, in quell’assolutezza dello “hic et nunc” che è prerogativa incontrastata della fotografia.

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 LILLO  GIULIANA
 “Fino al settimo cielo” 
fino all'8 marzo 2003
C’è un totemismo forte ed evidente nelle sculture di Lillo Giuliana; come a voler investire la levigata materia lapidea di contenuti ieratici e solenni.
E nonostante ciò, lo specifico riferimento a simbologie o linguaggi ben codificati non pare del tutto rilevante – benché l’artista paia risentire di antiche e più recenti epifanie nel campo del sacro e dell’artistico –, prevalendo piuttosto il riutilizzo in chiave personale, nel senso del dare forma a un proprio immaginario cosmogonico e teogonico, di quanto tramandato dalla tradizione scultorea precedente.
Il ricorrente monolitismo, lo slancio ascensionale, gli astromorfismi e i biomorfismi attingono, infatti, a un consolidato repertorio (che va dalle sculture megalitiche ai monoliti di Kubrick, passando per il raffinato minimalismo di Brancusi), e tuttavia Lillo Giuliana, riproponendolo nelle vesti d’una polita e quasi serica levigatezza, riesce ancora nell’intento di rinnovarne, con autonomo apporto, le semantiche profonde e radicate.
Pare palese, infatti, il farsi delle forme mediatore fra mondo fisico, delle cose e della natura, e mondo metafisico, dei contesti “altri” (platonici, come indica Vinny Scorsone, o più francamente spirituali), nell’elegante, ma contenuto per misura, dimensionarsi della materia nello spazio. Un dimensionarsi, per l’appunto, che non implica mai un’occupazione pesante ed incombente dell’ambiente circostante; ambiente con il quale, piuttosto, le opere di Giuliana paiono colloquiare, integrandovisi conformemente in virtù di tagli, fori e fenditure, grazie ai quali si riafferma quel rapporto fra interno ed esterno, fra chiuso in sé ed aperto verso l’ignoto, fra confinato e sconfinato, su cui ruota l’intera organizzazione universale, e quindi – biologicamente e simbolicamente – tutto il nostro viver quotidiano.Forse le sculture di Giuliana, che pure affascinano e colpiscono per la loro levità, non cambieranno il corso dell’arte contemporanea, ma sono certamente destinate a dare un significativo contributo a quella educazione estetica che a tutt’oggi, alle nostre latitudini, pare ancora un miraggio svaporante all’orizzonte.La mostra, che sarà visibile fino all'8/3/2003, si avvale dei contributi in catalogo di Aldo Gerbino, Giuseppina Radice e Vinny scorsone.   

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FRANCO PANELLA
"Ombre da Gaza"
fino al 15 febbraio 2003

Quella fra ragione e sentimento è generalmente considerata un’insanabile contrapposizione. Ma nelle opere di Franco Panella – in esposizione alla galleria Studio 71 fino al 15 febbraio – quest’apparente (apparente perché senza ragione non può esservi coscienza d’alcun sentimento) dialettica fra opposti pare ricomporsi con plausibile armonia.
L’impianto cartesiano, dettato da una scansione per linee ortogonali delle superfici, viene infatti costantemente temperato dagli inserti di macule sabbiose o ancor più dalla giustapposizione di frammenti fittili, atti a bilanciare, ridimensionandolo, l’inevitabile effetto ottico a scacchiera di stampo quasi topografico. Ne consegue una dinamica di “cretti”, che paiono ispirarsi a quello realizzato da Burri a Ghibellina (non si dimentichi che Panella è originario della terremotata Montevago), a testimonianza d’una volontà di costruzione (o ricostruzione) simboleggiante, concretamente, l’aspirazione a superare il limite ottico e interiore imposto dall’uniformità della “tabula rasa”.
Un afflato particolarmente percepibile proprio in quelle opere – come Sessantadue rosso o Ventitre/tre venti – in cui l’aggetto delle tessere argillose appare più evidente, sì da violare l’intonsa monocromia-monotonia di fondo. Non a caso il titolo della mostra, “Ombre da Gaza”, testimonia d’una passione politica e civile assai palese, che pare concretarsi in Ombre 59 ove il metallo di supporto rimanda con chiarezza all’idea d’una prigione.
Desiderio di libertà, dunque, per un popolo o una nazione, e volontà – come detto – di edificazione d’un mondo nuovo e auspicabilmente migliore. Sincero idealismo che si traduce in una lucida smania di fare (attestata dalla febbrile manipolazione dell’argilla), senza scadere in incontrollate derive passionali, ma sempre contemperando il rigore dell’intelligenza coi suoi inderogabili cascami psico-affettivi.
La mostra è stata curata da Aldo Gerbino e si avvale di un contributo in catalogo di Gonzalo Alvarez Garcia.


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PIPPO GAMBINO
"Aspettando le lunghe ombre della sera"
fino all'11 gennaio 2003

Trasfigurare il “veduto”, riscattandolo dai suoi meri connotati sensoriali, per advenire alla pura “visione” - intesa come elaborazione emotivo-cognitiva di quanto introiettato -, è dote non comune, ascrivibile solo ai veri artisti. Novero al quale appartiene a buon diritto Pippo Gambino, che, nel suo lungo iter artistico, della capacità di infrangere l’angusto limite dell’adesione al dato naturale ha fatto un cardine, optando per una pittura di grande pathos, ove al colore, profuso con estrema libertà, è affidato l’empito della propria irruenza emozionale.
Ciò fa di Pippo Gambino un pittore in sintonia col magistero degli espressionisti, dai quali ha mutuato la tavolozza accesa e incandescente, nonché una pennellata libera e aggressiva, ma senza imbrigliamenti in crudezze di teutonica ascendenza, essendo prevalente un transfert passionale per la propria terra - nel senso catulliano dell’odi et amo - che tutto armonizza nell’equilibrio della forma e del colore.
Non è un caso che, nel definirne il gesto artistico, Vinny Scorsone così abbia di lui scritto: “La sua è una pittura amorosa vissuta con passione, con la violenza di un amante travolto dall’oggetto del suo sentimento”. Un connotato ben percepibile nella serie di paesaggi esposta alla galleria Studio 71 - ove sarà visibile fino all’undici gennaio -, il cui comun denominatore, come attestano molti titoli, è la mediterraneità. Mediterraneità che Pippo Gambino declina con una propensione per le gamme fiammeggianti - dei rossi, dei gialli e degli arancioni variamente coniugati - sulfureamente commiste a grumi scuri, e solo di rado inframezzate da un improvviso verdeggiar di campi o da un aprirsi di cupe azzurrità. Mediterraneità che però non implica la patologia della mediterraneite, trovando nella forza degli impasti e nelle impetuose tessiture una sempre convincente stura per i tumulti suscitati dal porsi in relazione con una terra - la Sicilia - al contempo avara e ubertosa, docile e selvaggia, madre e matrigna.
Il linguaggio prescelto è adatto alla bisogna, oscillando lungo il crinale che separa la forma dal suo magmatico dissolversi in un gorgo d’astrazione. Così, si tratti di incandescenti “Bagliori sull’Etna” o di cromaticamente impetuosi “Paesaggi mediterranei” o, ancora, di un inquietante e misterico “Tramonto a Isola” o di una incombente e presaga “Quasi notte”, la Sicilia di Gambino pare scandagliata in tutte le sue varianti psico-affettive, svelando un’intricata e spesso drammatica narrazione d’un ancora irrisolto e non del tutto pacificato legame con chi ci ha generati nel corpo e nella mente. Un edipico complesso cui soggiacciono, forse, tutti i siciliani, ma che Pippo Gambino tende a elaborare congruamente in un eros dipanato fra slanci di affettiva compulsione, però sempre contenuti nella perimetrata violenza del trasmutarsi d’ogni emozione in sentimento.
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