Galleria Residenza Universitaria San Saverio
Via G. di Cristina, 7 - Palermo
 
 
 
ROBERTO  FONTANA
Carnaio
Corporeità svilite e dolenti, rese anonime e seriali da un ingravascente processo di riduzione del soma allo stadio di mera “cosità”.
Una vera e propria mortificazione dell’individualità – questa da cui discende, non a caso, il pertinente titolo Carnaio –, che Roberto Fontana ha saputo analizzare e tradurre visualmente con quell’approccio impietoso e senza remore che ne contraddistingue da sempre la peculiare cifra artistica ed estetica.
Poco importa, quindi, che egli abbia condotto questa sua ennesima ricerca “per immagini” attraverso dei reiterati meccanismi di proiezione soggettiva – puntando sul proprio autoritratto come icona elettiva e prioritaria –, poiché quel che conta veramente – in tal nuova riflessione sullo “stato delle cose” – è la ferma volontà di incarnare in un credibile feticcio una dilagante condizione di palese disturbo degli equilibri psiche-soma, facendone non tanto (o non soltanto) l’espressione d’un disagio strettamente personale, quanto – piuttosto – il paradigma d’una più diffusa situazione di malessere e patologia dell’intera società. In tal senso, l’insistita reificazione della dimensione corporale (e con essa il contestuale annichilimento di quella psicologica), di cui Roberto dà ampiamente conto con la sua pittura, si fa segno “patognomonico” – chiaro e incontrovertibile – d’una “casistica” sempre più estesa ed evidente, i cui sintomi inequivocabili (e purtroppo irrefrenabili) affiorano con sempre maggior frequenza attraverso le maglie d’un pur capillare (e assai cogente) sistema di “profilassi” e “terapia” (cioè “controllo”) d’ogni sorta di ipotetica “devianza” dalla norme convenute.
Proprio dietro la coltre suadente e rassicurante delle guarentigie democratiche si celano, infatti, – e la cronaca quotidiana ce ne dà triste testimonianza – delle forze pervasive e molto potenti, in grado di limitare ed anche conculcare le libertà individuali, facendo regolarmente leva su inappellabili esigenze di carattere superiore – il solito e non meglio specificato “interesse collettivo”, l’inderogabile “funzionalità” della macchina statale, l’obbligata “tenuta” dei conti pubblici e privati, l’assoluta “preminenza” delle leggi del mercato –, in nome delle quali e sul cui altare poter “legittimamente” sacrificare e annullare i bisogni dei singoli individui e di intere porzioni della collettività. E’ questa – per l’appunto – la “macelleria sociale” cui allude – senza tanti eufemismi o edulcorazioni di maniera – il Carnaio dipinto da Fontana: una inquietante e contingente situazione di annichilimento e straniamento dell’Io (inteso sia in termini profondi, di coscienza di sé, che apparenti, di ruolo esercitato in ambito pubblico) di chiunque si riveli poco funzionale, non sufficientemente coerente o addirittura in opposizione riguardo alle suddette (e immancabilmente pressanti e stringenti) necessità e cause di “forza maggiore” e di “pubblica utilità”.
Con un linguaggio fortemente impregnato di venature espressioniste – nel quale si mescolano le suggestioni nordiche di Kirchner, Nolde e Munch con gli spunti mutuati dal prediletto Bacon e con i diretti insegnamenti del dionisiaco azionista viennese Hermann Nitsch –, ma anche con un occhio assai attento alle indicazioni provenienti dal graffitismo della più attuale “street art”, Roberto ha dunque impaginato un impressionante “casellario” di singole tipologie di disagio e di squilibrio psico-corporale, non limitandosi ad una semplice elencazione di natura puramente “tassonomica”, ma procedendo nel senso dell’acuto approfondimento d’ogni singolo caso esaminato, per farne un doveroso riferimento ai fini della piena comprensione delle cinetiche destabilizzanti di cui è preda l’intero corpo sociale.
La “rivisitazione” della Decollazione del Battista di Caravaggio (con il focus puntato sul collo sgozzato e sanguinolento) o la ripresa allucinata de L’urlo di Edvard Munch (ormai ridotto ad una maschera magmaticamente decomposta) o ancora le svariate riproposizioni del proprio autoritratto (non di rado in un evocativo e straniante sdoppiamento dell’immagine attraverso il ricorso al riflesso in uno specchio), ma soprattutto le tante scene di macelleria (coi corpi umani drammaticamente appesi ai ganci ed esposti alla stregua di qualsiasi altro animale) diventano così le icone d’una sempre più diffusa condizione di minorità dell’Ego contemporaneo, i cui spazi di libertà risultano vieppiù ridotti e coartati in nome e per conto di “ragioni superiori”, nelle quali i contenuti umanitari appaiono del tutto soccombenti rispetto agli obblighi d’efficienza e praticità. Una inevitabile alienazione dal contesto ed un irreversibile processo di scivolamento verso la disidentità – quelli raffigurati crudamente da Fontana – che costituiscono il logico e consequenziale punto d’arrivo per chi non voglia o non sappia assoggettarsi agli intenti e ai dettami di tutti quei registi – più o meno occulti – che tendono ad orientare e condizionare i comportamenti dei singoli e dei gruppi. Rispetto a miti palesemante “normalizzatori” – alimentati da chi gestisce il potere economico e politico con l’ausilio d’un apparato propagandistico che s’avvale d’una comunicazione di massa artatamente orchestrata e controllata –, quali quello dell’opportunità d’una gestione “tayloristica” della macchina sociale (che consenta al contempo una miglior “resa” del meccanismo ed un più capillare “controllo” di chi si riveli riottoso o inadeguato), dell’iperspecialismo lavorativo (grazie al quale robotizzare l’individuo, ridimensionandone l’autonomia operativa), della professionalità elevata a regola di vita (dietro la quale non vi è altro che acritica adesione a schemi di marketing altrove precostituiti), del raggiungimento a tutti i costi del successo personale (fino alla prostituzione fisica e mentale pur di ottenere arricchimento o notorietà) e – non ultimo – quello dell’adeguamento a canoni di bellezza e forma fisica elaborati da pubblicitari e chirurghi estetici (in un ennesimo ritorno a moduli di corporeità che rispondono a finalità esclusivamente codificatrici e normative), è gioco forza – anche proprio malgrado – il divenir partecipi di meccaniche d’inclusione o d’esclusione, con tutto l’inevitabile corteo di ripercussioni intra-psichiche e di cortocircuiti negli equilibri psico-corporei. A fronte d’una così insistita pressione omologante esercitata dal contesto, in assenza di volontà o capacità di assimilarsi, lo scivolamento verso una dimensione separata di solipsismo – in cui il contrasto ormai insanabile fra immagine esteriore e personalità si risolve in termini di acuta sofferenza corporale – si pone al contempo come fuga da un giogo insostenibile e anche come reazione nei confronti d’una inaccettabile realtà.
E’ questa condizione ibrida, di vittima sacrificale (ostracizzata fino alla marginalità e alla morte) e di oppositore consapevole (che fa della rinuncia una critica al sistema), ad esser rappresentata da Fontana con veemente congruenza, spingendo gli osservatori a “prender posizione” attraverso una lettura intensamente simpatetica. L’identificazione emozionale ed affettiva con questi esemplari d’umanità dolente non comporta, infatti, un semplice coinvolgimento interiore dalle finalità catartiche, ma l’induzione d’una più ampia riflessione di sapore socio-politico, che prevede la presa di coscienza delle perverse e distorte logiche di cui è preda l’intera società.
Non un invito all’arrendevolezza e alla rassegnazione – quello espresso attraverso l’urlo rabbioso e di dolore, o mediante l’afasico e alienato straniamento, o addirittura con la definitiva riduzione allo stato mortuario –, ma un fermo richiamo al pieno recupero ed esercizio delle funzioni critiche, quale unico mezzo di difesa dalle dorate e capziose insidie mosse ai nostri inalienabili diritti di uomini e di cittadini.


Salvo Ferlito (marzo 2012)
 

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