ANTONIO  SAMMARTANO
Sagome

 

L’incorporeità come metafora d’una identità dai connotati sempre più incerti ed irrisolti.
Sembra essere proprio questa la principale – benché non unica – chiave di lettura della ricerca fotografica condotta in questi anni da Antonio Sammartano.
Ridotti a pure sagome scialbate, ed estrapolati dal contesto circostante attraverso l’esclusivo contrasto di colore (il bianco mortuario delle figure che si staglia sui dettagli grigio-neri degli sfondi), i personaggi raccontati dall’artista trapanese si collocano infatti a pieno titolo in quell’ambito di analisi della crisi dell’io contemporaneo, che contraddistingue larga parte della produzione artistica attuale (in ambito visivo e non soltanto in quello).
Una attenta investigazione – quella sui meccanismi di dissoluzione dell’individualità fino agli estremi della totale inconsistenza – sviluppata in un’ottica di diacronica continuità (seppur in termini di confronto e di dialettica) con la tradizione già storicizzata, rispetto alla quale – in definitiva – essa si pone come naturale e doverosa evoluzione tecnica e linguistica. E questo non solo per quegli aspetti di sperimentazione di tutte le possibili e ottimali soluzioni di carattere formale (però mai debordanti in esiti sterilmente formalistici) che caratterizzano il fare artistico di Antonio (rimarcandone per altro la natura elettiva di pittore), ma soprattutto (e primariamente) per quella capacità di rovesciamento dei termini della problematica nel loro opposto speculare, la quale è propria d’un approccio che compendi i modelli elaborati nel passato, oltre – ovviamente – a quelli della stretta attualità.
Se dalla statuaria classica (si pensi al paradigmatico canone policleteo), fino alle riprese neo-platoniche del leonardesco Uomo vitruviano o del michelangiolesco Adamo della Sistina, è tutto un riproporre l’idea di una umanità quale compiuto riflesso d’una superiore bellezza e perfezione, viceversa, a partire dal Manierismo (si guardi alla esemplificativa costruzione-decostruzione della figura umana attuata dall’Arcimboldo), proprio la ritrattistica  (col suo attento impianto fisiognomico) e più in generale la dettagliata rappresentazione del corpo (e in senso lato della corporeità) divengono progressivamente la fedele cartina di tornasole di quella dinamica disgregativa dell’io profondo (con tutto il corteo di lacerazioni interiori, inquietudini, ubbie e nevrosi responsabili dell’ingravescente sbiadimento della personalità) i cui catastrofici sviluppi agitano, destabilizzandola, l’intera architettura della nostra odierna società. Basterebbe volgere lo sguardo all’impietosa ed analitica pittura di Francis Bacon, per capire quale distanza siderale intercorra fra l’artista contemporaneo e quello di cinquecento anni fa (per non parlare di quella che separa dalla classicità greco-romana); quante “incrollabili” certezze siano franate nel frattempo, lasciando pieno campo a quella inquietante ed atterrente indeterminatezza dei ruoli e dei sembianti (individuali e collettivi) cui nessuno oggigiorno riesce più a sottrarsi.
Non sorprende dunque più di tanto, che Antonio Sammartano, il quale è artista calato pienamente nelle problematiche della contemporaneità, abbia messo in atto questo acuto scandaglio dell’immagine corporea, evidenziandone, senza alcun infingimento o artificio di retorica, la riduzione a mera traccia ectoplasmica, ormai orbata del suo peso psichico e sociale.
Bloccate in una rigidità didascalica da reclame pubblicitaria, le sagome di Sammartano si sottraggono quindi a qualsiasi possibile sviluppo narrativo (incluso quello che potrebbe aggiungere il fruitore), in una palese acinesia emotiva ed affettiva che denuncia l’assoluta vacuità dell’uomo post-moderno.
E’ in tal senso – cioè nel constatare l’impossibilità di qualsivoglia dinamica intrapsichica e relazionale dei suoi eterei personaggi –, che Antonio pone in atto quel pieno rovesciamento dei termini della problematica in questione nel suo estremo ed antipodico inverso speculare.
L’abituale analisi della “presenza al mondo” (in tutte le possibili scansioni cui la tradizione ed il contingente ci hanno abituati) cede infine il passo alla desolata e desolante presa d’atto d’una “assenza” divenuta irrimediabile.
La ricerca sull’essere abdica così all’amara constatazione del non essere, imponendo all’artista affabulatore la recisa regressione a mero notificatore d’una inaccettabile realtà.

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MICHAEL  OBERLIK
 
LEGGENDO OBERLIK 
Raccontare (e raccontarsi) per immagini è da sempre il vero fine perseguito dai pittori.
E’ proprio alla scoperta dell’enorme potere di significazione insito in semplici graffiti o tracce incisi su una roccia che si deve la nascita della pittura, ovvero di uno dei più straordinari strumenti d’espressione mai concepiti dalla mente umana. Il grande artificio della scansione affabulatoria (e illusoria) delle superfici, attraverso un sistema di segni via via organizzati in lessici dalla sintassi sempre più complessa (e in quanto tali in grado, nei millenni, di procedere da semplici e primitive descrizioni a sempre più articolate e mimetiche rappresentazioni, fino a giungere a forme espressive altamente concettuali e maggiormente astratte dalla verità ottica), costituisce infatti la grande alchimia di quest’arte ingannevole e pur tuttavia incredibilmente capace di irretire con le sue infinite combinazioni verbali e le sue molteplici sfumature narrative.
Una vis evocativa della quale Michael Oberlik ha una tale consapevolezza, da aver voluto ideare e inevitabilmente impaginare in forma di racconto questa sua ultima serie di dipinti, la cui sequenza espositiva, non a caso, risponde a criteri di logica visiva tipici d’una compiuta narrazione.
La suddivisione delle opere in un prologo e tre libri (più varie annotazioni), la geometrica segmentazione in più parti delle stesse (quasi a figurare un ideale succedersi di pagine), l’adozione d’un linguaggio astratto ma dal forte impianto segnico (a mo’ di immaginifica scrittura), la tendenza a non recludere il pensiero nel perimetro che delimita i supporti, l’articolarsi delle cromie – quadro dopo quadro – secondo meccanismi contenutistici propri d’una trama che si evolve, il marcato dinamismo visuale, tutto, insomma, contribuisce a una ideale e simbolica strutturazione delle tele – singolarmente prese e soprattutto nel loro insieme – nei termini d’una sorta di mirabolante manoscritto, nel quale il pittore austriaco ha riversato una fedele trascrizione della sua fantasiosa e tumultuante personalità. Una trascrizione che si avvale d’un lessico tendenzialmente espressionista (nei modi e nelle forme dell’Espressionismo astratto storico di matrice mittle-europea) e che tuttavia, pur propendendo per esiti informali (con tutto l’implicito corteo di contenuti emozionali estroflessi ed esibiti), giammai giunge a rinnegare integralmente la figurazione, di cui mantiene invece palesi tracce residuali, ben riconoscibili nell’insistito ricorrere di biomorfismi ed antropomorfismi.
In tal senso, la pittura di Michael Oberlik si pone in quell’ambito linguistico (coerente con la tradizione espressionista, ma con ibridazioni da graffitismo contingente di ascendenza nord-americana) che fa del recupero di suggestioni primitive ed aborigene un cardine fondante, attorno al quale sviluppare l’intero ordito della propria narrazione.
Scandendo, col bituminoso e pigmentato incedere delle corpose e nere pennellate, la superficie delle tele (e con essa l’accesa tessitura coloristica), il reticolare insieme segnico si offre per tanto alla visione quale sistema di repere, in grado di guidare l’osservatore in una caleidoscopica lettura di enigmatici grafemi.
Scrittura incantata ed irretente – questa di Oberlik – alla cui ipnotica energia dà un decisivo contributo, ai fini della “termica affettiva”, l’articolato ed alternato (libro per libro, capitolo per capitolo) uso del colore. Se nei quattro capitoli del primo libro è infatti tutto un susseguirsi di variegate e vivacissime cromie (gialli e rosso-arancioni accostati ai neri lineari e maculari ed a più aeree spaziature), altrove, a partire dal prologo e soprattutto col procedere della restante narrazione, si registra viceversa il prevalere di tinte dominanti (come i rossi rugginosi e i grigi), tendenti ad occupare – con poche interferenze biancastre ed azzurrognole – la totalità delle campiture interposte fra i tracciati. Il che pare avvenire in ottemperanza ad un iter emozionale, di cui l’artista austriaco descrive la ritmica pulsante con una grafia fortemente gestuale, ove il mistilinguismo tecnico è la nota imperativa. Non a caso, quindi, pennellate nevrili si alternano a più misurati inserti, scolature di colore controbilanciano stesure più composte, e improvvisi scarti materici (ottenuti con dovizia di pulviscolari pigmenti) violano aree più seriche e serene, quasi a volere dare corpo visuale al multiforme e complesso incedere delle proprie cinetiche intrapsichiche.
Nel pieno rispetto di ormai consolidate correnti di pensiero letterario ed artistico-visivo, anche quello di Michael Oberlik si pone, dunque, come un “raccontare” e principalmente un “raccontarsi” del tutto aperto, cui l’osservatore è chiamato a dare un personalissimo finale. Ed è proprio qui, lungo l’ineffabile limen fra l’immaginario dell’artista e quello del fruitore, che la pittura compie la sua incredibile alchimia; proprio in questo arcano insondabile, nel quale la soggettività dell’autore si incontra con quella dell’osservatore-lettore, dando luogo a quella irripetibile crasi simpatetica che trasforma un semplice intreccio di segni e di colori in una affermazione di condivisa identità. vai alla scheda personale di Salvo Ferlito   

 

 
GIOVANNA  FRA
Segni in attesa
1. Consapevole dei processi interminabili della cosiddetta “pittura d’azione” Giovanna Fra coltiva le forme dell’irrazionale, fissa nel colore le fluide energie dello spazio, mescolando elementi psichici e fisici in un divenire di possibilità che guidano  l’esercizio del gesto.
Nel rafforzare le ragioni del dipingere, l’artista non  vorrebbe mai esaurire l’esperienza del segno, il dialogo con lo stupore della superficie da cui ha origine il viaggio della pittura, dentro e fuori i perimetri stabiliti della visione.
In questa tensione illimitata, l’immagine segue orientamenti diversi che coincidono con le dinamiche dell’atto creativo, tracce di pensiero volano nell’aria, segni in attesa di altri segni, corpi sospesi, a distanza da tutto.
Giovanna Fra ama l’autonomia del colore da qualunque vincolo tecnico e ideologico, riconosce la ricchezza della tradizione ma anche il ruolo decisivo degli esperimenti pittorici che ne rendono complessa l’identità, infinita la sua persistenza tra i linguaggi mutevoli dell’attualità. In questo senso, non è interessata a misurare la visione interiore con il metro delle nuove tecnologie,   è sempre più attratta  dall’estrema avventura del colore, da impulsi immaginativi che non trovano risposta, tracce visibili di un cammino fatto di silenzi e di muti pensieri, un cammino che   non ha via d’uscita.
Come potrebbe del resto averne se l’autentica pittura è sempre all’inizio di se stessa, se il suo incanto affonda le radici nella terra dell’invisibile, là dove l’immagine non ha limiti e attende sempre di venire alla luce.
Questa coscienza dei valori pittorici sostiene la vocazione a sprofondare nell’esperienza del colore come continuo interrogarsi intorno alla sua funzione comunicativa, sospesa tra espressione soggettiva e volontà affrontare problemi di ricerca che non tramontano, questioni che rinnovano l’utopia della pittura attraverso la verifica di emozioni non separabili dai percorsi del tempo interiore.
Si tratta di dare un personale contributo alle persistenti dialettiche dell’arte informale: gesto-materia, segno-azione, colore-traccia, macchia-luce, espansione-rarefazione, tramiti inesauribili di un colloquio con la fisicità dinamica del dipingere.
Al tempo stesso: la pittura medita sui propri esiti e tende senza dogmatismi verso la parte più recondita di se stessa, come per guardarsi agire dentro il mistero delle forme, respirando l’aria del proprio segreto rivelarsi.
Mentre asseconda il movente gestuale della pittura, Giovanna Fra capta nuovi equilibri, traiettorie inesplorate, segrete oscillazioni tra il dilatarsi degli elementi primari e il loro viscerale richiudersi nell’ombra del colore.
Il suo impegno va oggi consolidandosi intorno a nuove ragioni percettive, verso la compresenza di molteplici registri, non solo l’astratto e l’informe ma anche il fluido e l’aeriforme, lo statico e il dinamico, la concentrazione del colore nella lieve sostanza del visibile e la sua estatica espansione verso l’infinito.
Questa direzione di ricerca è parallela agli echi cromatici del ciclo “Rumore bianco” già avviato nel 2002 (citazione preziosa di un famoso libro di Don DeLillo), non è dunque separabile dalle risonanze dei segni che in un precedente scritto ho definito “note di colore sul pentagramma della pittura, evocazioni del suono collegate ad una vibrazione cromatica”. 
Allora come oggi la dimensione di ricerca è pervasa da una profonda inquietudine, dal disorientamento della propria ragion d’essere, dalla verità inesprimibile che sta nel profondo dell’inconscio, pensiero incrinato dal dubbio, in attesa che altre visioni prendano corpo attraverso il rumore bianco del gesto. 
 
2. La fase di passaggio verso gli ultimi dipinti si affida alla compresenza di elementi costruttivi e di tracce vaganti,  astratte fissità del colore e segni che fluiscono in campo aperto, opposte tensioni dove l’immobilità del colore dipinto in modo uniforme si stacca dai flussi disgregati delle impronte.
Non a caso,  la presenza di brevi inserti geometrici si contrappone alle tracce e ai sedimenti informali, ne arrestano le fluenze, si sovrappongono alle espansioni, fissano il perimetro della superficie, quasi per misurare l’istante del gesto con riferimenti spaziali che esprimono una diversa tensione del dipingere.
In questo clima di lavoro convergono tutte le prove pittoriche del passato, infatti fin dai primi anni novanta Giovanna Fra lavora sulla sensazione primaria del colore, sulla complicità esistenziale dell’immagine, sulla materia come evento che si modifica nel tempo quotidiano della vita.
Il soggetto pittorico si è successivamente spostato dalle evocazioni naturalistiche del visibile ai processi interni della materia, per rivelare lo spazio di congiunzione degli elementi primari: l’aria ineffabile della superficie e la messa a fuoco del colore, le scosse irripetibili del segno e i tremori sottili della luce, la lieve densità del pigmento e la precaria stabilità del vuoto.
In questa pittura che oscilla tra presenza e assenza, il colore ha vita propria,  mescola oscurità splendenti e ombre luminose, densi vapori e umori terrestri, macchie trascoloranti e brezze leggere, stimoli persistenti dello sguardo.
Tutto ciò comporta un processo di lavoro che produce risultati ad insaputa dell’artista, sta alla sua velocità d’esecuzione il compito di farli emergere, anche il tempo di riflessione gioca un ruolo decisivo, l’importante è alternare stati diversi, creare pause dentro le stratificazioni legate al divenire del colore.
La pittura si nutre di pittura, non ha cose da raccontare che non siano quelle che scaturiscono dalla vita delle forme, tuttavia l’abbandono del referente non è mai dato per scontato, infatti la memoria del veduto non limita l’autonomia del colore. Sciami di segni entrano ed escono dalle geometrie instabili,  immagini in fluttuazione  salgono verso l’alto oppure sconfinano oltre l’orizzonte, al di là della terra e dello sguardo, appaiono e si dissolvono seguendo l’atto di stendere il colore, ogni volta conquistato con l’immediatezza del gesto.
Il riferimento al paesaggio è puro pretesto, è luogo inafferrabile del tempo dove il presente della pittura si avvera, eco di energie invisibili, tramite verso quella parte non ancora svelata che l’artista indaga come sostrato del visibile.
Di fronte alle morfologie astratte del paesaggio, di cui la pittura gestuale e informale si è da sempre nutrita, Giovanna Fra non ha esitazioni e neppure pregiudizi ma esprime un’adesione verso ulteriori presagi espressivi.
Ne prosegue infatti l’esperimento ben sapendo che si possono dipingere cieli come solchi accesi di rosso, orizzonti come segni anneriti dal tempo, territori come  leggere impronte di grigio, modi pittorici capaci di disgregare l’immagine ma non l’avventura del colore, la magia legata al gesto imponderabile del dipingere. Con carte imbevute di essenze cromatiche l’artista crea forme che non sono solo il risultato di un personale metodo operativo ma diventano preludio di visioni musicali, di contrappunti e disarmonie, di schegge dissonanti che indagano lo spazio e ne rivelano misure inconsuete.
Anche se la mano controlla le consistenze del colore, l’immagine genera continui mutamenti che fissano i  rapporti transitori  tra i pesi della materia e gli slittamenti del vuoto, tra la precisione delle geometrie e l’impalpabile leggerezza  delle forme: l’inesprimibile prende corpo nella tangibile presenza cromatica. 
Il nero-luce  svanisce nei vapori del rosso, uno stuolo di macchie s’infiltra nel silenzio della superficie, il riverbero mentale del bianco dilaga oltre il perimetro della tela, gli aloni del segno danno la sensazione di una dilatazione infinita.
Del resto, la stesura dei pigmenti si modifica in corso d’opera, tracce inconfondibili lasciano filtrare zone vuote generate dal pieno, ogni minimo respiro del colore invita l’occhio ad esplorare punti di forte concentrazione oppure a vagare sul limite dell’immagine che sfuma, perde consistenza, diventa aerea, si sposta verso la parte meno visibile,  fino ad annullarsi.
 
3. L’incontro con queste dinamiche avviene sia in presenza di forti contrasti -dualismo del rosso e del nero- sia all’interno della stessa luce, come in alcune opere dedicate completamente al nero, ai palpiti di nero nel nero, ai soffi di luce che affiorano dall’oscurità. Talvolta azzurri bagliori emergono nella sfera nebulosa del notturno, appena sfiorati dalle variazioni di materia.
D’altro lato, come si diceva, avvengono incontri imprevisti tra il nero e il rosso che transita, trasale, slitta, si muove rapidamente da un punto all’altro, trascinato lungo un orizzonte immaginario oppure attirato da una vertigine scoscesa.  Immagine che rapidamente si consuma, svanisce ma trova sempre l’energia per stare sospesa, in attesa di imporre il proprio assolo nell’aria raggelata di bianco.
All’opposto, tracce disgregate volano su orizzonti densi di luce, luce dentro luce, sempre e solo chiarore indefinito che accoglie l’istante del suo trasalire verso il buio. Da una rigorosa campitura di nero cadono lembi di colore, macchie di calcolata sensibilità che stanno nel palmo delle mani, come una cascata di frammenti che vengono da ogni dove, in effetti  si staccano dal limite dei margini per depositarsi su chissà quale piano, non importa saperlo.
Ecco infine una serie di piccole superfici di legno che l’artista intende come appunti di un diario intimo le cui pagine stanno sulla parete come una scrittura veloce, linguaggio immediato della precarietà, impronte del corpo cromatico che si alleggeriscono placandosi nel vuoto.
La possibilità è quella di osservare queste brevi sensazioni pittoriche una alla volta oppure nell’ambito di una composizione dove esse agiscono a diversi livelli di lettura, come segni in attesa, frammenti  di una totalità che unisce la misura dello spazio ambientale al sentimento infinito del cosmo.
Queste minime pagine di pittura somigliano agli attimi di viaggio, a quei  tracciati involontari che nascono col pensiero rivolto altrove, con la memoria  segnata da ricordi improvvisi, senza esitazioni, senza neppure il rischio di perdere il filo dello spazio e del tempo. Nell’atto di segnare la superficie con  ritmi improvvisi che si consumano sotto lo sguardo Giovanna Fra ha l’aria di immaginare la dimensione dell’altrove, eppure lo spazio è senza tregua, sempre presente nella coscienza dell’artista come vastità fisica dell’immaginazione.
Basta l’incontro fra due segni a creare un precipizio, basta il loro separarsi improvviso a rendere incerto il controllo della visione, d’altro lato è sufficiente lasciar cantare il vuoto per trovare l’energia necessaria ai brevi scatti del colore.
Di fronte all’evento della pittura l’artista coltiva un silenzioso riserbo, non ha bisogno di teorizzare e neppure di parlare personalmente, le basta credere nei mezzi pittorici per avvicinarsi alla sua verità. Il bisogno è quello di scavare nel fondo più autentico dell’emozione pittorica, per rimanere coinvolta  nel processo d’invenzione della materia, fino a fare emergere l’esperienza dello smarrimento come valore costruttivo della pittura.
Non a caso, il senso di questi lavori è affidato ad un termine di intensa verità poetica, “docile fibra”, ricavato da un verso di una poesia giovanile di Ungaretti (16 agosto 1916). In questa immagine Giovanna Fra identifica la propria sensibilità creativa, il senso di precarietà di fronte alla dimensione dell’universo, il sentimento del tempo che scorrendo leviga le cose e segna i passaggi della vita: l’immagine del fiume Isonzo in cui il poeta meglio si riconosce.
Sul filo di questa citazione l’artista sente la pittura come docile fibra dell’universo, dunque, tacito ritmo che si allarga nello spazio alla scoperta dei valori essenziali del comunicare, emozione che scaturisce dal sentimento originario dell’esistenza come attesa di significati che rimandano ad altri significati. Da questi sottili fili letterari nascono gli attuali lavori di Giovanna Fra, immagini appena toccate dal segno e dal colore, vibrazioni di un processo pittorico circolare e avvolgente, profondo tentativo di vivere la pittura al di fuori di ogni calcolo linguistico, come autentica esperienza dell’inconscio che affiora e si proietta nell’ignoto.
E’ per questo che l’immagine non ha limiti, può vaporizzarsi nella grande dimensione dell’ambiente oppure concentrarsi su brevi intuizioni percettive, sempre efficaci nel condurre il lettore verso la conoscenza interiore dello spazio,  là dove si acuisce il desiderio di scorgere, anche solo per un attimo, quello che ancora non si vede e che forse non potrà mai rivelarsi completamente.
  
                                                                                                   Claudio Cerritelli
 
FRANCESCO PAOLO MADONIA 
Per aspera ad astra 

dal 31/10/2004  al  30/11/2004

Le concrezioni materiche, i pigmenti combusti, le ricorrenti scabrosità testimoniano d’un fremito ideativo non confinabile nelle angustie della figurazione classica.
La scelta astrattista di Giovanni Francesco Paolo Madonia nasce, dunque, da una dichiarata insofferenza verso lessici vissuti come griglie troppo rigide ed anaelastiche, e in quanto tali incapaci di condensare al meglio l’acre distillato dell’interiorità.
Eppure, classificare il gesto artistico di Madonia come semplice “informale materico” significherebbe incorrere in una tassonomia ovvia e un po’ schematica, di certo non in grado di esaurire pienamente la complessità immaginifica sottesa al suo operato.
L’insistita polimatericità dei suoi dipinti, l’alternarsi di aggetti più o meno prominenti, l’estroflessa plasticità che quindi anima le superfici dei supporti, il lavico coagularsi dei pigmenti sotto l’incedere dell’azione combustiva, tutto concorre a rimarcare una consapevole progettualità che, pur nell’inesausto anelito alla ricerca, rifugge da improvvisazioni estemporanee e non sufficientemente cogitate. Nessun “furor dionisiaco”, dunque, nessuna trance “medianico-creativa”, nessun “dripping” incontrollato da “trip psicotropico”, bensì un’ideazione meditata e pausata, che pare procedere per sedimentazione di immagini ed emozioni, poi trasfigurate e tradotte con un approccio di speculativa e lucidissima sperimentazione.
Non è un caso, quindi, che in riferimento alla sua arte Tommaso Romano abbia giustamente parlato di “lucida consapevolezza delle tante ombre nel cammino, delle memorie ancestrali da dipanare, di caverne da esplorare e labirinti da cui fuoriuscire”, come a testimoniare la percepibile evidenza d’un iter accidentato, umano ed artistico, che infine si ricompone scientemente nella simbolica e concreta asperità delle stesure. Asperità che non nega, nonostante la palese inclinazione per l’informale, il permanere di suggestioni e reliquati di figuratività; anzi pare esaltarne la valenza fantasmatica di evocazioni mnemoniche, affioranti dal grumo scuro dei vissuti attraverso un percorso che ne preveda la progressiva abrasione d’ogni vana ridondanza, fino alla radicale enucleazione dei contenuti più intimi e profondi.
Sicchè, tracce di paesaggi e vedute, forse portato di pregresse esperienze personali (il nostro pittore è originario di San Giuseppe Jato) o semplicemente frutto di vivida immaginazione, paiono baluginare qui e là nella sofferta e tormentata resa dei materiali, restituendo all’osservatore visioni dipanate su quel labile confine che separa il dilavato ricordo dalla franca allucinazione. E tutto ciò, senza mai indulgere a liquorosità affettive ed a liquidità pittoriche, ma sempre con un’attitudine – per così dire – costruttiva, nella quale l’aspetto “fabbrile-efestino” è del tutto preminente, quasi a ribadire la predetta (e imprescindibile) natura “progettuale” che sta a monte d’ogni vero gesto artistico.
Così facendo, Giovanni Francesco Paolo Madonia rinverdisce non soltanto la componente manuale del fare arte, ma soprattutto la sua natura “alchemica” (e non solo per le tecniche adottate) ed il suo essere un procedere “per aspera ad astra”, grazie al quale la mera sensazione ottica, elaborata nelle traiettorie neurali oculo-corticali, diviene, come per magia, pura proiezione di soggettività. E proprio in questo crogiolo, in cui il dato sensoriale si coniuga con l’emozione fino a tradursi in sentimento cognitivamente compiuto e definito, che ribolle e si conforma la magmatica poetica di Madonia.
Poetica dalle declinazioni “ctonie” e “vulcaniche”, la cui dirompente vis ottica mai rinnega, ma anzi conferma l’incorrotto ruolo demiurgico dell’artista contemporaneo. 
 
MARIO BARONE
"Cieli in una stanza"
 
Dal 30 maggio al 19 giugno 2004.
Nuvole in fuga verso un altrove non meglio definito.
Addensate in grigi cumuli o disperse e rarefatte sull’intonsa superficie cartacea dei supporti, le nuvole dipinte da Mario Barone paiono infatti procedere per autonome cinetiche inerziali di matrice intrapsichica, di fatto estranee all’impetuoso agire di qualsivoglia forza “naturalmente eolica”.
Quello naturalistico è dunque un semplice pretesto; un presupposto narrativo, dal quale il nostro pittore ama idealmente muovere nei suoi percorsi immaginifici di progressivo straniamento dall’ambito “terreno”, evidentemente vissuto come troppo angusto e costrittivo. Gli “aerei” paesaggi che ne sono scaturiti hanno pertanto una preminente valenza allegorico-simbolica, davvero in grado di travalicare il mero dato percettivo e fotografico, in funzione dell’esclusiva proiezione dei vissuti affettivo-emozionali.
Si spiega in questi termini l’adozione assai frequente di orizzonti ribassati – incombenti su più o meno cupe azzurrità marine o su grigi profili rocciosi appena ravvivati da cespugli –, grazie ai quali lo stacco ascensionale delle nubi assume una evidenza ottica (e soprattutto metaforica) ancora più marcata. In tal modo, Barone pare voler guidare il nostro sguardo all’interno d’un paesaggio (perché, in fondo, d’un unico paesaggio si può parlare, sebbene declinato in molteplici varianti) che è innanzitutto “panorama interiore” (della psiche o dello spirito, a seconda delle ottiche), però riportato nei modi e nelle forme dell’apparente ossequio alla natura.
In tal senso, la scelta di un linguaggio aeriforme e rarefatto, supportato da una tecnica adeguata (ovvero da un acquarello tonalmente diluito su ampi spazi, coi pigmenti stesi a macchie in maniera anche discontinua), si rivela pertinente e funzionale al coinvolgimento (sensoriale e cognitivo) degli osservatori, magneticamente richiamati all’interno di un contesto più intimistico e soggettivo, che strettamente materiale. Un lessico non estemporaneo ed immediato, ma maturato per lenta e progressiva decantazione del colore, altrove – per l’esattezza in opere pregresse – dispiegato con inusitata compattezza e intensità.
Anche in quelle gouaches, in vero, la fedeltà vedutistica al paesaggio non era che un puro espediente per dissertazioni eminentemente simboliche e tendenzialmente astratte, dovute al comporsi quasi geometrico delle spesse campiture o a sfrangiamenti timbrici simil-divisionisti. Tuttavia, procedendo qualitativamente “per levare” da questi precedenti, quindi sottraendo densità ed estensione alle cromie ed alleggerendo il tutto fino a renderlo impalpabile, Barone ha dimostrato di potere pervenire a una pittura aerea e trasparente, al contempo essenziale e rigorosa, dotata di puro incanto ma senza cedimenti liquorosi, e in qualche modo “universale” nel suo essere assolutamente refrattaria a qualsivoglia tentazione di esasperata mediterraneità.
E questo, grazie ad un percorso al quale non sono indifferenti profonde riflessioni sulla grande paesaggistica anglosassone dell’ottocento – Turner in special modo – e forse anche sui precursori olandesi del seicento – van Ruysdael per esempio –, dai quali il nostro autore ha saputo mutuare quell’afflato – già precontemporaneo – alla rappresentazione simbolica dell’interiorità, idealmente proiettata su più o meno fosche turbolenze cirro-nembiche. Iter – quest’ultimo intrapreso da Barone – di certo non concluso e al quale, nonostante le legittime aspirazioni alla ricerca di sempre nuovi moduli espressivi, è auspicabile che egli dia ancor più impulso e continuità. Il parallelo uso degli acrilici su tavola, infatti, pur avendo gradevoli esiti cromatici e pur perseguendo analoghe finalità allegoriche (ben evidenti soprattutto nei notturni), ha però minor valenza immaginifica, poiché più prossimo a tanto paesaggismo “mediterraneistico” in cui – purtroppo – non è infrequente imbattersi.
E’ dunque nella spoglia e leggiadra sobrietà di queste nuove carte, che si dispiega appieno la “poetica” visione del nostro Mario; è proprio in quei cieli annuvolati, nei quali ama rifugiarsi il suo io irrequieto e in continuo movimento, che la pittura di Barone va assumendo la sua cifra più compiuta e definita, rivelando quelle fini doti liriche in grado di rappresentare congruamente ogni minimo moto che agisce nel profondo.vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 
 
SUL FILO DEI RICORDI
il teatro della memoria di Tino Signorini

La grafica come teatro della memoria, come simbolica ribalta su cui esporre le sbiadite “memorabilia” di tutta un’esistenza.
Sono proprio i ricordi, velati dalle brume del passato prossimo e remoto, la linfa vitale cui ama attingere Tino Signorini.
Evocati dal grumo scuro della psiche e ordinati secondo un’intima scansione cronologica, in cui l’affanno del lavorio degli anni cede a una meditatività pausata e avvolgente, essi costituiscono i reperti d’un mondo sommesso ed antieroico, lungamente introiettato fino a depurarsi d’ogni vanagloria e falsa retorica. Una autoanalisi da cui deriva una silente narrazione per immagini, ove il “visibile” pare emergere a fatica dalle nebbie circostanti, quasi che il rimembrare riaprisse “vulnera” a stento suturate dall’oblio del tempo; di quel tempo soggettivamente vissuto e percepito, che fa di ogni esperienza un unicum di irripetibile e insondabile mistero.
Muovendo dal raffinato grafismo di Vespignani e dalle desolate atmosfere di Sironi, e avvalendosi del prediletto e irrinunciabile contè, Signorini dà così corpo, con eleganza rarefatta, a tutto il corteo di ombre (e di ubbie) albergate nei recessi della mente. Il lirismo elegiaco cede il passo a un pathos misurato e minimale, ma di subitanea immediatezza nella sua estrema penetranza. Non è un caso che del dramma esistenziale Signorini offra il contesto (paesaggi urbani oscuri e solitari, muri screpolati, ingombri tavoli di lavoro, battigie ventose), richiamando gli osservatori a un emotivo processo immaginifico e quasi inducendoli a una completa immedesimazione simpatetica. I trapassi chiaroscurali, le dissolvenze ottiche, gli avvolgimenti atmosferici, tutto contribuisce a fermare il flusso degli eventi, a inchiodarne gli scenari in immagini sfocate, abrase dal peso d’un vissuto dai risvolti dolorosi e a tratti insostenibili.
Si spiega in questi termini il prevalere d’una “scurità” di fondo, tutta orchestrata su tonalità grigio-nerastre, solo di rado interrotta da improvvisi barbagli coloristici. Una monotimia cromatica di tipo “goyesco”, capace di specchiare fedelmente la “saturninità” di chi la ha concepita, senza mai eccedere, però, in inutili tetraggini, mercè una sobrietà al contempo rigorosa e raffinata.
Così, sfrondati d’ogni superfluo orpello descrittivo e ridotti alla loro essenza narrativa, i ricordi si profilano sui fogli come avvolti da caligini aeriformi, baluginanti quali ectoplasmi nei gorghi dell’oblio. Interni di cucine sedimentati di fumo, scorci fantasmagorici della Palermo vecchia, lo studio di via Castriota, gli oggetti abituali del lavoro, muri erosi e dilavati di quartieri anonimi scorrono sotto gli occhi degli osservatori, contribuendo a ricomporre il filo impercettibile d’una irretente biografia, il cui fascino magnetico risiede proprio nel suo essere “anti-epos”, nel suo sostanziarsi di scenari comuni e quotidiani però trasfigurati in immagini assolute e senza tempo.
In questo modo Signorini ci consegna la sua “storia”, una “storia” senza squilli né fanfare, sempre sotto traccia, anche quando si sofferma a indugiare sul biancore agghiacciante d’una sagoma in un letto d’ospedale o allorquando giunge al “limen” d’una finestra forse volta verso il nulla. Finanche in certe inaspettate accensioni di colore - di un’arancia, di una pera, di una spiaggia assolata -, che non rinnegano distimicamente lo “spleen” sottostante, ma lo completano denotando una fisiologia della rimembranza punteggiata anche di frammenti di maggior serenità, l’armonica misura è fatta sempre salva, senza debordamenti euforici di scontata mediterraneità e soprattutto senza “piacionismi” dettati da tentazioni di mercato.
Un linguaggio - questo di Signorini - di grande austerità, ma non per questo meno vitale di tanti altri fin troppo vitalistici. Una conferma del proprio essere “ancor vivo” (perché la memoria personale e collettiva è il presupposto d’ogni coscienza), consegnandosi così, da vero artista, all’immortalità.
Le opere di Tino Signorini saranno visibili alla Quadreria del Lotto dal 4 al 22 maggio.
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MARIO CASSISA 
Sacello d’artista 

dal 4 al 25 aprile 2004

Mario Cassisa è quel che si dice un artista eccentrico ed irregolare.
Doti non comuni – l’eccentricità e l’irregolarità – anche in un’epoca come la nostra, in cui l’esibita sregolatezza e il raro genio la fanno da padroni. Le scelte di vita, ancor prima di quelle artistiche (cui tuttavia sono intrecciate indissolubilmente), testimoniano infatti d’un naturale e genuino “nomadismo esistenziale”, che lo ha guidato per tutta la sua vita, prescindendo da mode transitorie e contingenti.
Non a caso, egli ha trascorso buona parte dei suoi anni – prima di ancorarsi definitivamente a Trapani – spostandosi da un luogo all’altro e viaggiando in lungo e in largo come in preda ad un bisogno insopprimibile: quello di allargare a dismisura i propri orizzonti geografici e con essi quelli mentali. Dagli Stati Uniti alla Polinesia – ove forse lo ha sospinto il mito di Gaugain – è stato, nei fatti, un succedersi di tappe, che ne hanno determinato l’originale crescita di uomo e di artista fuori dagli schemi. Un percorso articolato, che spiega esaurientemente la genesi di quel lessico “meticcio” e fortemente “contaminato”, in cui convivono tracce, scorie e suggestioni di svariata e complessa provenienza. Cassisa, infatti, attinge a piene mani alla tradizione figurativa occidentale, mescolandola però a simboli arcaici e primitivi delle civiltà aborigene (africane e oceaniche) ed a citazioni delle culture precolombiane, fino a produrre un’ibridazione di gran vivacità estetica e soprattutto visuale. E ciò al di fuori di qualsivoglia semplicismo o naiveté – perché il tutto è profondamente meditato e progettato –, ma piuttosto nel nome di un “sincretismo” dichiarato ed elevato a stilema peculiare.
Rientra in questa evidente volontà progettuale anche la sua ultima impresa, ovvero il “Sacello dell’artista”, autentica epitome di tutto il proprio operato pluridecennale e – in qualche modo – testamento ideale (nel senso più apotropaico del termine)  dell’articolata poetica che lo ha guidato nel suo agire.
Un effimero “monumentum” al proprio essere nel mondo, che, ben lungi dal configurarsi quale auto-celebrativo necrologio, si offre ai visitatori come puro atto d’amore nei confronti di quel fare artistico eletto a ragione fondante d’un’intera vita di zingaro inesausto e irrefrenabile. vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 

SEBASTIANO CARTA
"MISCONOSCIUTO FUTURISTA DI SICILIA"

E’ una piccola-grande raccolta di assoluta completezza, quest’insieme di fogli sui quali Sebastiano Carta (Priolo 1913 - Roma 1973) ha saputo trasporre il proprio articolato immaginario ideativo.
Piccoli dipinti d’una straordinaria compiutezza, di forma e contenuto, sì da costituire una ideale galleria, specchio fedele d’un percorso creativo sviluppatosi nel volgere di un intero quarantennio.
Nell’intreccio di linee e di colori, felice confluenza di suggestioni astrattiste, dinamismi di matrice futurista e sussulti espressionisti, si svela infatti tutta l’esuberante irrequietezza estetica di quest’autore.
Poeta, oltre che pittore, artista completo incline ai movimentismi (fu amico di Marinetti e fra gli artefici, nel 1932, della seconda ondata futurista), Sebastiano Carta ha incarnato pienamente lo spirito del tempo, col suo continuo ricercare moduli linguistici sempre nuovi (tanto letterari, quanto visivi) cui affidare l’impellenza del proprio disagio esistenziale. Si spiega in questi termini il patente eclettismo che lo ha contraddistinto, la continua tendenza a mutuare spunti e sollecitazioni dalla temperie contingente, attraversata con raffinata eleganza in punta di penna e di pennello nell’arco di gran parte del secolo trascorso.
Schizzi, acquarelli, piccoli dipinti, realizzati a partire dagli anni ’30 e fino agli anni ’70, testimoniano di una inesausta e sempre brillante capacità di confrontarsi ad ampio raggio col mondo circostante, in una relazione osmotica di interscambio attivo e mai di acritica passività. Non stupisce, pertanto, che nelle opere degli anni ’30 si trovino a convivere in assoluta armonia la più razionale delle astrazioni geometrizzanti, orchestrata in un disegno a penna che pare quasi un traliccio, e la figurazione morbida d’un soggetto nautico, schizzato con guizzante sinteticità su carta quadrettata, riecheggiante atmosfere di ascendenza scipioniana. Né, tanto meno, può sorprendere che nella produzione degli anni ’40 coesistano un vedutismo di chiaro sapore informale, baluginante di dissolvenze coloristiche nel fantasmagorico accenno degli edifici, e una vis espressionistica, di tratto e di colore, di cui impregnare certi volti o maschere mostruose. Con pari levità, Carta ha saputo frequentare il lessico picassiano e le dissertazioni dell’espressionismo astratto di matrice americana, il tardo recupero di influssi kandinskijani e il gusto “ideografico” per il segno in cui riunire, con sintesi felice, la lezione di Capogrossi e l’interesse per l’arte aborigena.
Dunque, tutto si incontra e si sussegue in quest’ampia produzione di Sebastiano Carta, a riprova di una curiosità e d’una avidità estetica che lo guidarono - senza soluzione di continuità - nel suo percorso artistico. E ciò ben al di là del mero citazionismo modaiolo, come d’altronde dimostra la non comune capacità di entrare nel “merito” di tanti linguaggi senza mai scadere nella sclerotica ripetizione dello schema o del cliché testè appreso, ma piuttosto procedendo in punta di fioretto fra toccate, con affondo, e fughe verso nuove mete.
Poliedrico e versatile, Sebastiano Carta ha confermato col suo operare come l’essere “vero artista” non si possa né si debba limitare a un ambito troppo specialistico e un po’ sclerotico (rigorosamente poetico o pittorico), ma comporti un continuo espandersi e debordare extra limina, seguendo sempre nuove direttrici di pensiero, in una esplorazione inarrestabile delle proprie potenzialità ideative e di espressione.
Una lezione cui guardare, meditando, per la sua sconcertante attualità.

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STEFANIA ROMANO
 MANTAFI
Stefania Romano è una fine narratrice. Una narratrice per immagini – ovviamente –, trattandosi d’una valida ed abile fotografa.
Dote non comune, quella dell’affabulazione, e in qualche modo in controtendenza, nell’attuale panorama fotografico, vista l’eccessiva mole di fotografie pubblicitarie e cronachistiche del tutto prive, nonostante l’apparenza patinata, di qualsivoglia contenuto narrativo.
I fotogrammi della giovane artista di Palermo sono invece (e fortunatamente) di ben altro spessore e caratura, costituendo dei microuniversi favolistici al cui interno dipanare interamente i propri vissuti emotivi nell’ossequio d’una attenta sperimentazione estetica. Lo dimostra – senza tema di smentita – l’estrema ricercatezza visuale con la quale ella impagina i suoi scatti, ricorrendo a svariati espedienti tecnici, fra i quali la sovrapposizione di immagini, gli effetti dissolvenza e – in special modo – i forti contrasti chiaroscurali. Non è infrequente, infatti, che i personaggi immortalati da Stefania si ammantino di bianche e candide vesti, grazie alle quali risaltare sul buio dei notturni circostanti. Una scelta lessicale – questa dei marcati contrasti luministici –, che le consente di avvolgere ciascuna delle storie raccontate d’un alone inquietante e misterioso, come è proprio della grande e migliore tradizione favolistica. Ecco allora un Pinocchio – ibrido irrisolto, a metà fra la condizione umana e quella del burattino – emergere dalle ombre d’una moderna falegnameria, o una fanciulla-crisalide pendere col suo virginale bozzolo da un ramo d’albero, e ancora la stessa autrice immortalarsi ripiegata su sé stessa all’interno d’una diafana bottiglia. Tutte immagini di forte impatto ottico – nonostante l’estrema eleganza delle composizioni – e di intenso contenuto emozionale, nelle quali si evidenziano appieno, seppure in controluce, le lacerazioni legate al “divenire adulti” ed all’assunzione di quei ruoli “socialmente codificati” (la maternità, ad esempio, o l’abbandono d’una visione ludica dell’esistenza in favore d’una ben più produttiva) a torto od a ragione ritenuta un passaggio (quasi) obbligato per ciascun giovane.
Stefania racconta tutto ciò ed altro ancora; e lo racconta assai bene, riuscendo a coniugare con notevole efficacia forma e sostanza,  così riportando la fotografia alle sue migliori origini – non sono pochi infatti i riferimenti alle foto di Lewis Carrol, il padre di Alice nel paese delle meraviglie, che fu anche un apprezzato fotoamatore –, per restituirle finalmente quel potere di “incanto” che agisce nel profondo, oggigiorno troppo spesso disperso al di sotto di lucide coltri ed ammiccanti superfici.
Fino al 15 febbraio 2004              vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 

 
TANIA BARRALE 
"Cuciture"
mostra personale
 
Affidare al lessico informale, al semplice gioco dei tonalismi e delle nuances, alla loro pura orchestrazione, la propria ideatività ed affettività, è scelta artistica che richiede gran coerenza ed anche – oggigiorno – non poca voglia di andar controcorrente.
Infatti, benché il panorama artistico attuale compendi la coesistenza di una svariata (e quasi infinita) moltitudine di stili e di linguaggi, ciò non di meno si registra – da qualche anno a questa parte e soprattutto fra i più giovani – una forte ripresa della figurazione, che pare esser divenuta il prioritario cimento di non pochi artisti.
In tal senso, l’operato di Tania Barrale – che anagraficamente rientra a buon diritto nel novero delle ultime generazioni – pare porsi, con le sue franche derive informali, nettamente in controtendenza, rilanciando modalità espressive tipiche del secondo dopo-guerra, quando la definitiva dissoluzione della forma assunse i connotati d’un gesto liberatorio rispetto agli oppressivi modelli culturali che avevano dominato nei decenni precedenti.
Pur consapevole del ridimensionamento dell’aspetto “infrattivo” del gesto artistico informale, Tania tuttavia opta per questo lessico, nelle cui declinazioni – evidentemente – ritrova gli elettivi strumenti di estroflessione del proprio fresco immaginario. Ella, infatti, ne pratica i molteplici percorsi, con quel piglio sicuro che è tipico di chi faccia della ricerca estetica ad ampio raggio il proprio obiettivo prioritario. Sicchè, nella sua ampia produzione, è possibile incontrare tanto opere di impalpabile levità visuale (nelle quali l’orchestrazione è operata per accostamenti di leggere pennellate ad acquarello di diafana liquidità tonale), quanto opere di forte impatto ottico (in cui i colori sono campiti con marcata compattezza o addirittura con tangibili stesure materiche) animate da evidenti contenuti dialettici. In queste ultime, infatti, improvvise discontinuità della superficie pittorica – ottenute lavorando su reti metalliche tese all’interno di corpose cornici colorate o attraverso soluzioni di continuo delle tele – danno la chiara idea di un rapporto, ricercato e voluto, fra i pieni e i vuoti, quasi a ribadire – alla Fontana – l’impossibilità di contenere esaurientemente la materia pittorica all’interno di un supporto piatto e concluso.
L’esigenza di andare oltre, debordando nello spazio vuoto circostante e superando quello puramente illusorio della tela, pare – dunque – primeggiare nel percorso di ricerca della giovane artista belmontese. E questo, in ossequio a una tecnica articolata e consapevole (non si dimentichi che è assistente della cattedra di pittura all’Accademia di Brera) e ad una ideatività estremamente progettuale nel suo incedere ed agire.
Cultura artistica e progettualità contraddistinguono, quindi, l’attività pittorica della Barrale. Una miscela che le auguriamo di mantenere in buon equilibrio, onde evitare le sempre presenti insidie nascoste in griglie di pensiero troppo rigorose, purtroppo capaci – quando non temperate – di smorzare quegli impeti emotivi che sono il vero spirito d’ogni opera informale. 
 
Fino al 25 gennaiovai alla scheda personale di Salvo Ferlito
 
operacosta.jpg (28419 byte)GAETANO COSTA
   "Luce insolente"

dal 16 novembre al 4 dicembre 2003

Il disegno come elettivo mezzo di espressione; quale prioritario filo conduttore che unifica le diverse anime - grafica, fotografia e pittura - del suo fare artistico. Perché Gaetano Costa è fondamentalmente un talento grafico, che però ha saputo estendere questa sua naturale inclinazione ad altri ambiti, advenendo ad esiti di non meno alta qualità.
Come egli stesso afferma, il tracciare segni sulla carta  si accompagna a un fisiologico piacere del "fare" dai contenuti quasi terapeutici. Una valenza curativa - nel senso più elevato del termine - che evidentemente gli ha consentito di agire le tensioni ideative tumultuanti nella sua giovane e fertile psiche, così da dar forma assai compiuta a un complesso immaginario affinatosi nell’alveo storico della transizione dal simbolismo all’espressionismo.
Nelle opere attualmente esposte alla Quadreria del Lotto (dai disegni di piccolo formato alle fotografie ritoccate a mano ed ai dipinti di grandi dimensioni) è infatti evidente e dichiarata l’attenta riflessione sui modelli di Beardsley e di Schiele, di Schomberg e di Munch. Tutti artisti dai quali Costa ha saputo mutuare le doti di empatia, necessarie per scandagliare senza remore i recessi più profondi dell’interiorità, e soprattutto i moduli linguistici, benché rielaborati con autonomia in una funzionale miscellanea di forza visuale e ricercatezza estetica.
Ne consegue un tratto segnico di estrema accuratezza, riconducibile - come detto -, nella forma e contenuto, ai modelli di Aubrey Beardsley (alle illustrazioni per la Salomè di Wilde e per la Lisistrata di Aristofane), dei quali ripropone quella elegante e insidiosa ambiguità circonfusa di sensuale e irretente magnetismo. La trama fittissima, da ragno infaticabile, si alterna all’accecante biancore degli sfondi, in un bipolare alternarsi di horror vacui e cupio dissolvi, che al contempo affascina e inquieta l’osservatore. Un dato riscontrabile anche nelle fotografie, ove il disegno si sovrappone come un merletto alle figure, rivelando forti suggestioni ad opera dell’arte primitiva, quasi fosse un linguaggio tatuato quale quello dei Maori.
Tuttavia è nella pittura, che l’iter di Costa pare giungere a pieno compimento, a indicazione d’una riuscita crasi fra segno e pennellata, fra rigorosa bicromia e pienezza del colore.
La superficie pittorica appare infatti scabrata a più riprese, come cesellata da un susseguirsi di incisioni (soprattutto nella resa dei panneggi) che producono un effetto "braille" di tattile e materica evidenza. E tutto ciò senza scadere, ad onta delle parvenze, nel decorativismo di maniera; perché il tratteggio insistito ed ossessivo ha sempre una valenza strutturale più che formale, dando peso e carattere - anche in termini percettivi - all’articolata tavolozza e assumendo i connotati di una irrinunciabile cifra stilistica.
Un grafismo, talora esasperato, che non altera però la diretta percezione degli aspetti psico-affettivi, di quei sensi di solipsistico ripiegamento su sé stessi e di esclusione da ogni ambito relazionale che permeano in profondo i personaggi. Piuttosto, ne deriva un contrasto assai straniante fra lo smorto incarnato delle figure, spesso smunte e ossute, e l’opulenza traboccante di vesti e drappeggi, elaborati ed operati in un incredibile profluvio di cromatici ricami. Coppie di amanti assorti e rattrappiti in un bloccato abbraccio mortuario (omaggio dichiarato a Schiele), ma illuminati dal colore delle vesti e dei panneggi riccamente istoriati, o smagrite fanciulle contratte in posture di patologica chiusura (alla Munch), e tuttavia incorniciate da tessuti vivacissimi, si susseguono a soggetti più dinamici, in un percorso che rimarca la maturata "equivalenza terapeutica - sono parole di Costa - fra grafica e pittura".
Una conquista, quella della pittura, che sembra completarsi in quei dipinti su carta nei quali il gesto artistico si dispiega in piena libertà, non più costretto da vincoli di sorta, esprimendo tutto il suo "furor" orgasmico e dionisiaco attraverso pennellate (ed anche unghiate) inferte sul supporto fino a bucarlo.
Opere nelle quali il suddetto solipsismo tende a debordare - anche in virtù d’una prevalente scurità - in una franca angoscia, confermando una statura da artista ormai maturo.
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CRISTIANO MATTIA RICCI
 “Retornos de lo vivo lejano” 
 
L’impianto marcatamente graffitistico, che fa del “segno” il cardine lessicale di tutta una poetica, è indiscutibilmente la peculiare cifra stilistica della pittura di Cristiano Mattia Ricci.
Il tratteggio insistito, racemizzato talora fino a produrre trame inestricabili e quasi pollockiane, scandisce infatti ogni punto della superficie pittorica, rivelando un vivace immaginario assai in linea con le tendenze della contemporaneità.
Il graffitismo di matrice americana, a tutti gli effetti, pare avere esercitato e continuare ad esercitare il suo influsso prepotente su molti giovani artisti del vecchio continente. Influsso che si coniuga però, più o meno sapientemente, con  la tradizione pittorica europea, privilegiando le varie sperimentazioni ed avanguardie del secolo trascorso. Si spiega in questi termini quel ricorrere di accensioni coloristiche che dai fauves si è evoluto fino all’espressionismo astratto, ma anche di palesi tracce di figuratività che, pur movendo dalle più antiche culture aborigene, non disdegna affatto il recupero di certe altre suggestioni novecentesche, come quelle che paiono ricondurre a Campigli in “Licini e l’amico”.
Cristiano Mattia Ricci è dunque un artista del suo tempo, ma pienamente consapevole di quanto lo ha preceduto. Un artista, per altro, multidisciplinare, aperto e dedito alla poesia quanto alla pittura. E’ forse questa la ragione del suo grafismo  talora esasperato – quasi volesse “scrivere” con grafemi colorati –, ma nei cui slanci emotivi pulsa senz’altro una lodevole urgenza di espressività.

Alla quadreria del lotto fino al 2/11/03

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MARIANA ACUNA 
 Personale
 
Mariana Acuna è quel che si dice una pittrice in linea con i tempi.
Artista cosmopolita – è originaria del Sud-America, ma vive in Italia ormai da anni – la Acuna è infatti artefice d’una pittura di forte contaminazione, nella quale confluiscono un intenso colorismo (forse discendente dal suo vissuto latino-americano), una spiccata tendenza alla sperimentazione visuale e, al contempo, un richiamo non equivocabile alla tradizione figurativa.
E proprio la commistione fra tessiture cromatiche elaborate in piena libertà – con una netta inclinazione per le orchestrazioni di carattere informale – e tratteggio graffitistico – marcato ed essenziale nella sua linearità – dà la chiara percezione di come l’artista sud-americana, nel suo incedere pittorico, agisca nel segno di una attiva dialettica fra opposti, però tendendo a dare luogo a un linguaggio in cui la contrapposizione tende a sciogliersi – seppur con qualche discontinuità – in amalgami bene equilibrati.
Ne deriva che proprio la brillante tavolozza, ora giocata sulle sfumature tonali d’una predominante coloristica, ora declinata in termini di articolati accostamenti di nuances (con un effetto a “patchwork” esaltato dalla sovrapposizione di pezzi di carta o di tela), funga da supporto narrativo per l’inserto di figure e figurette chiamate al ruolo prioritario di ectoplasmici protagonisti della narrazione.
Animali, personaggi di pura fantasia, simboli esoterici, impronte manuali, ma anche bottiglie (che riconducono direttamente alle esperienze novecentesche della natura morta) campeggiano, sparuti e solitari, sugli sfondi policromici come pure silhouettes incorporee (di cui la Acuna delinea solo il profilo) deputate a testimoniare, fabulatoriamente, l’imprescindibilità da un retaggio – quello figurativo – vissuto come memoria cui ancorare le più sfrenate derive dell’immaginazione.
Un contrappuntistico confronto, nel susseguirsi di fughe e ritorni, in grado di esprimere a pieno la temperie che viviamo; una temperie nella quale paiono convivere il passato col presente, lo sperimentalismo con la conservazione, in una sorta di eterno ritorno che tutto compendia e nulla rinnega.vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

Fino al 29 giugno 

 

ALESSANDRO DI GIUGNO 
Jardin Planetarie 
 
Alessandro Di Giugno è quel che si dice un artista “colto”.
Il suo modo di concepire la fotografia lo colloca infatti, a buon diritto, in quel novero di operatori delle arti visive nei quali è palese il peso esercitato da una lunga tradizione. Una tradizione più pittorica, che squisitamente fotografica, come del resto attestano tanti dei suoi scatti, meditati e costruiti con quella meticolosa preparazione che è tipica proprio dei pittori.
Esente, nonostante la giovane età, da irruenze e immediatezze, Di Giugno elabora così le proprie immagini, progettandole con cura certosina, per poi tradurle nel concreto grazie all’uso della camera.
Lo rivelano, con chiarezza inoppugnabile, le articolate foto che il giovane artista di Palermo espone in questi giorni (fino al 30 maggio) alla Quadreria del Lotto, nel centro storico di Trapani.
Elaborati, scatto dopo scatto, secondo un criterio di impaginazione sequenziale, questi fotogrammi confermano in pieno una non comune progettualità assai ben cogitata e mai lasciata al caso.
Come un pittore, forte dei suoi disegni preparatori, o come uno scrittore, che abbia già in mente il suo romanzo ancor prima di vergarlo, Di Giugno infatti assembla e ordina le sue “visioni”, in un percorso di ricerca che non indugia facilmente in stereotipi scontati.
Il “Jardin Planetarie” – come egli ha voluto chiamare questa serie di immagini – racconta, non disdegnando l’ironia né l’ombra del disagio, il rapporto dell’autore con il mondo circostante.
Non a caso i personaggi ivi ritratti si ritrovano di spalle o piantati nella terra, in una sorta di biotico ritorno alle proprie origini, o surrealmente abbigliati con la muta da immersioni, ma incapaci di nuotare come attesta il salvagente.
La scelta del colore, seppur fra (e proprio in virtù di) marcati contrasti con gli sfondi, è assolutamente funzionale a un racconto “esistenziale” venato di emozioni e solipsismi, di senso dell’assurdo e di necessità affettive.
Un linguaggio – questo di Di Giugno – assolutamente immaginifico e quasi favolistico, che denota l’aperta e programmatica rinuncia alla presunta (e spesso irrealizzabile) oggettività di stampo meramente cronachistico, in favore d’una narratività intrecciata di invenzioni, idee e visioni in grado di ricondurre la fotografia alle sue radici realmente estetiche, finalmente depurate di quei cascami estetizzanti a torto ritenuti marchio inappellabile di qualità artistica.
Alla Quadreria del Lotto fino al 30 maggio vai alla scheda personale di Salvo Ferlito
FRANCISCO OROZCO
La leggerezza dell'essere
Francisco Orozco è un’artista nicaraguegno ma di formazione decisamente europea.
Non è un caso, infatti, che egli abbia perfezionato le sue doti di scultore proprio in Italia, e precisamente in quella Massa Carrara che è da sempre una tappa obbligata per ogni “scalpellino” che si rispetti.
E che Orozco abbia guardato al vecchio continente ed alla sua millenaria tradizione scultorea è attestato, con inoppugnabile evidenza, dalle serie di piccole sculture in esposizione per tutto aprile alla Quadreria del Lotto, in quel di Trapani.
Tutte incentrate sull’universo femminile, queste minute statuette (quasi dei bozzetti, benché estremamente curati in ogni particolare) rivelano un immaginario erotico – si tratta per l’appunto di nudini – che attinge chiaramente a piene mani alla vasta fonte della classicità. Basterebbe infatti guardare il sensuale tronco acefalo, ritratto in una elegante movenza “ellenistica” da menade danzante, per avere contezza della capacità di Orozco di trarre spunti e suggestioni dal magistero della statuaria antica con un approccio assai fedele e quasi filologico.
Un approccio confermato anche altrove, in quella sequenza di figure modellate con uno slancio aerodinamico che pare di farfalle o di libellule, nel cui susseguirsi di “finito” e “non finito”, di anatomie sericamente levigate e di blocchi appena sbozzati dai quali i corpi sembrano balzare, affiora chiaro un certo riferirsi dell’autore – seppur con le dovute proporzioni – a modelli rinascimentali d’ascendenza michelangiolesca.Modelli che il nostro Orozco riesce a fondere, in una crasi assai audace e immaginifica, con le spigolosità quasi geometrizzanti dell’Art Decò, all’apparenza vera musa ispiratrice di questo artista latino-americano. Proprio il profilarsi assai sintetico delle muliebri silhouettes, come a fendere lo spazio circostante, richiama alla memoria alcune figurine di Lalique o le minute statuine poste a mo’ di tappo sui radiatori delle automobili di allora, a testimonianza – come detto – d’un continuo richiamarsi a esempi del passato, sebbene non lontano o, per meglio dire, prossimo.
In conclusione, forse non si può dire che Orozco sia un grande innovatore – quanto meno non lo si evince dalle opere qui esposte –, ma è sicuramente artista dotato di tecnica e cultura, il che rende questa esposizione degna d’una visita più che attenta, rispettosa e meditata. 

Fino al 30 aprile  

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GIUSEPPE FELL
Nuovi e vecchi percorsi

Quello di Giuseppe Fell è un itinerario artistico esemplare. Esemplare nel suo essere un riuscito cammino di autoformazione, maturato in assoluta indipendenza e libertà.
Estraneo a frequentazioni accademiche di sorta, fuori da qualsivoglia "cerchia" o "cenacolo" elitario-intellettualistico (e quindi lontano da logiche di schieramento e di appartenenza), Fell ha infatti improntato tutto il suo operare ad un autodidattismo e ad un’autodisciplina di non comune efficacia e qualità.
Proprio questo autorientamento, questo cercare una personale identità, sottraendosi a pseudo-magisteri istituzionali e a schemi estetici precostituiti, fa di Fell un artista dalla ideatività non coartata - col pretesto della didattica - in alvei imposti dall’esterno e quindi meno sensibile a lusinghe modaiole contingenti.
L’unico vero insegnamento cui egli ha soggiaciuto, riconoscendone l’inoppugnabile valore, è stato (ed è) quello della migliore pittura d’ogni tempo, alla quale attingere spunti e suggestioni da rielaborare senza pregiudizi di ordine tecnico o linguistico.
Si spiega in questi termini la poliedricità dei percorsi effettuati, l’alternarsi di lessici dalla parvente antinomia, il ricorso a difformi modalità di stesura ed esecuzione, in un anelito alla ricerca del modulo migliore, in cui l’affinamento tecnico è sempre funzionale all’espressione di intensi contenuti. Non deve, pertanto, sorprendere - per quanto paradossale possa sembrare alla luce dell’attuale produzione - che Fell abbia mosso i suoi primi passi dal paesaggismo di stampo ottocentesco, preso a modello da indagare e sviscerare ai fini d’un alunnato pratico e teorico.
E’ stato in codesta fase che il nostro artista ha intrapreso "l’esercizio della mano", scandagliando attentamente la macchia toscana, l’impressionismo d’oltralpe ed il verismo insulare per carpirne ogni possibile segreto. Le prove che ne sono derivate - piccole tavolette eseguite con grande immediatezza, ma anche tele di maggiori dimensioni ben riuscite nella loro articolazione grafica e cromatica - hanno progressivamente rivelato una crescente padronanza, lasciando intravedere fertili sviluppi.
Infatti è stato proprio a questo punto che la carriera di Giuseppe Fell ha subito come uno scarto, mettendo a nudo pienamente quell’insoddisfazione che è il sale d’ogni crescita umana e soprattutto artistica. Laddove molti altri si sarebbero adagiati su una remunerativa attività in grado di suscitare facili consensi (maxime in una città come Palermo, scleroticamente fossilizzata in un gusto che difficilmente accetta ciò che non è figurativo e quindi di immediata e facile lettura), il nostro giovane pittore ha deciso viceversa di andare oltre, di procedere lungo nuovi itinerari di sperimentazione e di estendere così i propri orizzonti visivi e ideativi.
E’ nata da questa urgenza, da quest’impulso a migliorarsi, la scelta produttiva che lo ha imposto all’attenzione della critica e che gli ha consentito di vincere dei concorsi di pittura.
Con una cesura più apparente che sostanziale, la figurazione chiara e definita, morbida vettrice di paesaggi e di vedute, ha lasciato il passo a un rapprendersi improvviso del linguaggio in concrezioni ideografiche d’umori primitivi. Le superfici, campite con compatte stesure cromatiche all’acrilico, si sono via via animate di screziature graffitistiche, tracciate con arcana demiurgia su inattese stuccature. Geometrie, impronte, geroglifici, ombreggiature e squilli coloristici sono confluiti in una crittografia dalla sintassi imperscrutabile, ma capace di congiungere al meglio i retaggi più ancestrali con le istanze della contemporaneità.
Con un euritmico andamento, a tratti matematicamente periodico, al contempo rigorosamente misurato nell’equilibrio compositivo ed armonico nella contrappuntistica orchestrazione cromatica, Fell ha trasposto sui supporti una intensa narrazione, traducendo le sue idee nei segni misteriosi d’una immaginaria scrittura personale. A ogni segno un contenuto, in una semantica profonda ed evocativa, spesso ieratica nella sua evidente totemicità, ma sempre viva e penetrante, e soprattutto in grado di coinvolgere gli osservatori in questa forte volontà di ridefinizione del mondo interiore e di quello circostante.
Ciò non di meno, quest’ansia d’espressione non è mai giunta a pieno compimento, come se ogni traccia, pur conclusa in sé, non riuscisse ad aggirare il limite celato in ciascun significante, ovvero quell’impossibilità di raccontare il tutto, che è il pungolo inesausto che spinge alla ricerca.
E’ stato forse per questo, per una compulsiva e inevitabile reazione, che Fell ha intrapreso lo studio di nuovi territori, esplorando attentamente quel labile crinale lungo il quale la certezza della forma confluisce nell’enigma informale.
Ne è conseguito un linguaggio felicemente sospeso fra allusioni figurative e dissolvenze astratte, dipanato entro un paesaggismo indefinito, pervaso di ombre e di mistero, ove aleggia incontrastato lo spirito di Pan. Soggioganti visioni - inizialmente nella scansione del piccolo formato e da qualche tempo anche su più ampie superfici -, depurate d’ogni superflua estroflessione coloristica e piuttosto intrise d’una brumosità aggrovigliata e impenetrabile, nelle quali l’introiezione percettiva si impone all’osservatore col suo scarno ma irretente magnetismo.
Una pittura - quest’ultima di Fell - nella quale l’occhio si disperde in un grumo d’emozioni, richiamando al nodo irrisolto d’una natura madre e matrigna con la quale confrontarsi senza le distorcenti griglie della razionalità.
Non è dato sapere cosa Giuseppe Fell ci riservi per il futuro, se perseveranza in questa scelta o nuove discontinuità; ma è certo che, sapendo resistere alle lusinghe del mercato ed insistendo nelle sue alchimie sperimentali, egli saprà ancora sorprenderci con convincenti prove di valentia pittorica.
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