PAOLO  MADONIA

 

GRIDA DI SILENZIO
Alla Sala Duca di Montalto di Palazzo dei Normanni, fino al 6 gennaio, in esposizione la recente produzione pittorica di Paolo Madonia
 
 
Un itinerario coerente all’insegna della ricercata “decantazione dello sguardo”. Una autentica “depurazione visuale” – quest’ultima messa in atto con sempre più efficacia da Paolo Madonia – che connota impareggiabilmente un incedere volto alla mirata enucleazione di quel dato affettivo di cui è intrisa – nel profondo – l’immediatezza emozionale d’ogni visione.
E’ ancora una volta l’approccio “alchemico” (inteso non solo in termini strettamente tecnici, in considerazione del ricorso sistematico alla trasmutazione pirica dei pigmenti, ma soprattutto dal punto di vista eminentemente iniziatico, cioè di un ulteriore e progressivo affinamento dei processi dell’ideare e agire artistici), dunque, a caratterizzare sempre più peculiarmente la pittura di Paolo Madonia; un approccio che fa precipuamente dell’ostinata e incessante ricerca della personale “rubedo estetica” quel fine elettivo e prioritario cui consacrare interamente la propria vita di uomo e di pittore. Non si tratta, infatti, del semplice miglioramento della capacità di restituzione del dato ottico (attraverso la mediazione mimetica del gesto artistico, in ottemperanza a quei criteri di fedeltà naturalistica ancor oggi ricorrenti in terra di Sicilia), quanto – piuttosto – della fattiva distillazione dell’esprit insito nei soggetti messi a fuoco, grazie ad una vieppiù stringente filtrazione delle suggestioni sensoriali, di cui viene infine offerto un sublimato di forte impatto visivo e di intensa penetranza emozional-sentimentale.
Non è un caso, pertanto, che quest’ultima produzione di Madonia sia improntata ad un cromatismo rarefatto e quasi minimale, con una tavolozza prevalentemente dominata dal contrasto binario fra neri lavici ed algidi bianchi (fra loro sovente interconnessi dal volatile andamento di brume oscure e caliginose) come a voler configurare allusivamente (per via di sottrazione di colore) il raggiungimento dell’essenza più intima ed ascosa del “mood” paesaggistico. Ancora una volta, infatti, è la terra avita – ovvero quel susseguirsi di plaghe al contempo aspre ed ubertose su cui domina incombente il monte Jato – a funger da ossessivo innesco immaginifico, alimentando un’acuta e insistita riflessione visuale, i cui connotati rigorosamente selettivi – in termini di sfrondamento d’ogni superfluo orpello estetizzante o inutile ridondanza descrittiva – sono alla base della scarna e raffinata purità degli attuali esiti linguistici. La tecnica adottata è quella di sempre – il ricorso alla catarsi ignea con la quale trasmutare gli informi pigmenti in armonici amalgami di lapidea consistenza – e tuttavia l’eloquio del racconto appare ormai stringato fin quasi alla spoglia levità dell’aforisma, e senza che ciò implichi – però – alcun allentamento della tensione narrativa o qualsivoglia riduzione della forza irretente emanata dalle immagini. E’ vero – come detto – che i rossi magmatici, i gialli turgidi e gli azzurri lapislazzulo delle smaltate e vitree campiture dei dipinti precedenti hanno quasi definitivamente lasciato pieno spazio al prevalere d’un nero ctonio e petroso, d’un bianco vacuo ed aeriforme e di pulviscolari e tonali caligini, e che gli squilli ipercromici appaiono ridotti a tracce residuali (benché assai vibranti) di pura e circoscritta intensità; e ciò non di meno, in questa parvente introflessione dell’articolazione coloristica, non si avverte il minimo depotenziamento della capacità di coinvolgimento simpatetico degli osservatori, ma piuttosto un compiuto  e riuscito incremento della forza di impatto ottico (e della conseguente attitudine alla sollecitazione dei dinamismi intrapsichici) esercitata dal peculiare ductus della pittura.

 

Quella che Madonia ci restituisce – col suo caratteristico linguaggio tendente all’informale e tuttavia pregno di allusioni figurali – è dunque la fedele mappatura delle complesse percorrenze nei meandri della psiche, di quel raggiungimento “iniziatico” d’un più profondo stadio dell’essere ed esistere, che trova proprio nel paesaggio avito (nella valle dominata dal monte Jato) la “formale” e “millimetrica” modalità di rappresentazione. I luoghi della memoria, quindi, come specchio d’una interiorità sempre più “depurata” e “alleggerita” da inutili pressioni e condizionamenti; ne consegue che la spoglia e rigorosa sobrietà degli assetti compositivi, nonché l’estrema misuratezza delle orchestrazioni coloristiche altro non siano, pertanto, che raffinati espedienti iconografici, funzionali alla piena esplicitazione dell’approdo ad un ancor più cosciente Ego artistico ed umano. Scarne topografie – eppure di notevole bellezza – dei “limina” cui  è pervenuto il proprio ostinato ricercare dentro di sé; inquietanti e fascinose cartografie pittoriche, in grado di confermare – una volta di più – il valore allegorico dell’arte quale impareggiabile strumento di conoscenza ed auto-conoscenza; non vacuo sistema di grafemi finalizzati ad iperbolici e roboanti resoconti visuali, ma opportuno armamentario col quale scandagliare a fondo la realtà psichica e fenomenica, per offrirne – al fine – un “precipitato fabulatorio”, intriso – al di là dei “verismi” di facciata e di maniera – d’un autentico e profondo senso di verità.
 
 
                                                                                     Salvo Ferlito - dicembre 2012     
 

 

ANNI   PRECEDENTI

 

 
ENNIO  CALABRIA
 
     Calabria mistico      
 
Fa uno strano effetto entrare nella Sala dei Duchi di Montalto a Palazzo dei Normanni di Palermo e incontrare un Calabria inedito, mistico, abituati così come siamo a ricordarlo come il bel  ragazzo un po’ tenebroso con quel sigaro fra le labbra sempre acceso (ricordo in questo senso una bella immagine di Calabria giovane fotografato a Prato nel 1979 da Elsa Mezzano e pubblicato nel catalogo della stessa Mezzano in una mostra fatta recentemente a Palermo).  Debbo dire senza timore di essere smentito che questo Calabria mi ha convinto artisticamente oltre ogni ragionevole dubbio. Calabria mi ha emozionato. Sarà stata l’aria un po’ mistica che si respira in quella enorme sala diventata percorso museale per l’occasione, sarà stata l’emozione di rivivere i momenti della sofferenza di Giovanni Paolo II così magistralmente impressi sulla tela, proprio non so. Sicuramente però dove Calabria raggiunge il massimo del suo misticismo è nell’opera: Il vero nel falso, un acrilico su tela di cm 300 x 200 del 2005 questa tela coglie nel segno. Ho visto durante la mia visita alla mostra molte persone soffermarsi e commentare l’opera oserei dire che è un’opera spiazzante e in ogni caso è sicuramente una mostra che ti coglie di sorpresa 
E dire che, per chi scrive d’arte dovrebbero essere dei momenti normali, ma così non è stato Calabria mi ha affascinato con le sue grandi tele dandomi la sensazione di essere ancora più piccolo di quanto io non sia. L’allestimento quasi ineccepibile conferma che la professionalità di coloro i quali hanno scelto le opere e la disposizione delle stesse, almeno per una volta non può essere messa in discussione.  
Un’ottima mostra nel suo impianto scenico e scenografico. La mostra resterà aperta fino al 1° dicembre 2005 con orari dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00 tutti i giorni, domenica  dalle 10.00 alle 12.30 ingresso gratuito. Catalogo con testo di Franco Simongini prezzo € 20,00,
 
Palermo 18/11/2005
 
 
                                                                                  Roberto Latino   

 
 
LA COLLEZIONE WURTH 
Una panoramica sui padri storici dell’arte contemporanea

 

Quello intercorso fra la nascita dell’Impressionismo e la comparsa delle avanguardie storiche è, senza dubbio, il periodo più fertile della storia dell’arte contemporanea.
La sintesi di tratto, il progressivo appiattimento delle stesure coloristiche (e con esso l’annullamento della prospettiva classica), l’accensione della tavolozza, la destrutturazione della forma (e poi la sua dissoluzione), l’introduzione di tematiche via via sempre più scabrose e aderenti alle reali dinamiche sociali, le teorizzazioni dai forti intenti programmatici (tecnico-linguistici e spesso anche politici) non sono che alcuni degli aspetti salienti di quella rivoluzione artistica, avvenuta fra fine ‘800 e primo ‘900, i cui cascami continuano a permeare ampiamente la produzione di tanti artisti di oggigiorno.
Non stupisce, per tanto, che attorno agli impressionisti ed ai tanti avanguardisti, loro successori, si sia appuntato un interesse crescente e inarrestabile, tale da rendere le loro opere degli ambitissimi oggetti del desiderio, contesi (non di rado a cifre da capogiro) fra pubbliche istituzioni museali e raccolte di privati ed accaniti collezionisti.
Un esempio preclaro di tale irrefrenabile passione per i “numi tutelari” dell’arte contemporanea è pertinentemente rappresentato dalla collezione Wurth, attualmente (e fino a giugno) in esposizione a palazzo dei Normanni nell’ambito d’un qualitativo (e per una volta lodevole) progetto di intervento dei privati nella gestione del patrimonio culturale dello stato.
Il magnate del bullone, Reinhold Wurth, ha infatti sponsorizzato il restauro della cappella Palatina, offrendo, per di più, la possibilità di ammirare una significativa selezione dei capolavori di famiglia, in cambio d’un giusto e doveroso ritorno pubblicitario per le proprie attività imprenditoriali.
Si tratta di una carrellata assai esaustiva sulle più innovative correnti pittoriche europee a cavallo fra XIX e XX secolo (con una particolare attenzione per l’arte tedesca), in grado di descrivere tutti quei fermenti e quelle istanze radicali maturate in quel fertile e concitato periodo di grandi ed epocali cambiamenti. Basta infatti volgere lo sguardo al brulicante “Porto di Le Havre” di Camille Pissarro o alla fumosa “Stazione Saint Lazare” di Claude Monet, per cogliere in tutta la sua pienezza quel mito positivista della nascente società industriale e metropolitana che, muovendo anche dalle dissertazioni di poeti come Baudelaire, avrebbe trovato proprio nella poetica degli impressionisti la sua esemplificativa e impareggiabile espressione.
Tuttavia, sarebbero bastati pochi decenni, perché il fascino esercitato dal fervore della vita cittadina si trasformasse (con la sola eccezione dell’atteggiamento fideista nei confronti della tecnica dei futuristi) in una inquietudine profonda se non, addirittura, in un cupo pessimismo.
Ecco, allora, il “Vampiro” di Edvard Munch (versione del 1917 d’un prototipo del 1893, che anticipa in pittura il Nosferatu cinematografico di Murnau) farsi icona ineguagliabile di tutte quelle angosce esistenziali che, tumultuando incontrollate negli abissi della psiche, finiranno col caratterizzare l’intera problematica dell’io contemporaneo. La donna-mantide, misto di magnetica bellezza e crudele ferinità, tanto cara ai simbolisti, si è dunque definitivamente tramutata in un mostro vorace e distruttivo, capace di incarnare totalmente le pulsioni devastanti albergate nel singolo individuo e nell’intera società.
Tramontato e ormai sepolto l’approccio introiettivo degli impressionisti, è – per tanto – l’estroflessa violenza lessicale e narrativa degli espressionisti a imporsi sulla scena artistica del primo ‘900, quale efficace strumento di fedele rappresentazione d’ogni tensione agente in quel momento. L’aggressività cromatica, l’estrema sintesi formale, il richiamo all’arte aborigena, la durezza delle tematiche divengono quindi gli espedienti linguistici grazie ai quali esplicitare la programmatica volontà di rottura con una tradizione figurativa considerata obsoleta e soprattutto vessillifera d’un ordine sociale da sovvertire e rifondare. Dalla “Danzatrice mora” di Kirchner, sfrontata nella sua esibita nudità, alla “Natura morta” di Nolde, con la palese citazione dell’arte africana che la caratterizza, da “I due bagnanti” di Pechstein, tratteggiati con poche pennellate d’acquarello, fino alla più tarda “Agave” di Kokoscha, dalla stesura quasi sfatta e decomposta, ed al “Ritratto seminudo con gatto” di Beckmann, col suo erotismo esplicito e incombente, la mostra offre tutto un susseguirsi di capolavori espressionisti che di queste istanze dissacratorie e innovative costituiscono un manifesto chiaro e largamente intellegibile.
Un punto di cesura e svolta nella storia dell’arte europea, del quale la collezione Wurth fornisce una puntuale e attenta panoramica, assolutamente da non perdere in una città come Palermo, nelle cui istituzioni museali, purtroppo, non v’è traccia di questa pittura che ha creato le incontrovertibili premesse della contemporaneità.

 

Bruno Caruso
  Mostra antologica  
 
 
Bruno Caruso è ritornato ad esporre nella sua Palermo e ancora una volta nel Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Qui, sotto le volte affrescate delle Sale del Duca di Montalto, l’artista ha presentato, dal 23 aprile al 23 maggio 2004, la mostra antologica comprendente cento disegni realizzati dal 1944 al 2004, nell’arco quindi di sessant’anni.
La carrellata si apre con i disegni che risalgono al 1945 e che ritraggono una Palermo ancora coperta di macerie. Ma già il pittore rivela talento, impegno e rigorosa applicazione.  Nel 1948 l’artista, a Praga, inizia una lunga serie di contatti con personalità di tutto il mondo e si fa attento alla lezione dei grandi maestri del passato.   E intanto ritrae un rabbino tra le lapidi di un cimitero ebraico.
Seguono i disegni geometrici eseguiti in un deposito di legnami di Palermo, realizzati agli inizi degli anni Cinquanta.  Successivamente l’artista entra nel Manicomio della sua città. Nel corso di quattro anni ricava un universo grafico di grande intensità.
L’antologica offre anche immagini della società degli anni Sessanta e presenta donne altere e misteriose, ma anche serre mediterranee, ficus giganteschi, cesti con fiori, conchiglie e farfalle.
Nei più recenti ritratti di donne circola un sottile erotismo. E c’è perfino erotismo nei due scheletri sul materasso fermati in un amplesso che va oltre la morte.
   
 
  Giuseppe  Quatriglio

 

Invia questa pagina ad un amico