EDWIN HUNZIKER
“La terra ritrovata”
(fino al 10 dicembre)

Papaveri a Marina LungaIl fascino subito dai pittori nordici ad opera del paesaggio peninsulare (e soprattutto del meridione d’Italia) è un dato assodato da più di tre secoli. Basterebbe ricordare gli olandesi, che nel seicento calavano nell’Urbe attratti dalla rivoluzione caravaggesca (poi filologicamente importata nella natia Utrecht o più semplicemente rielaborata in loco nel semplificato lessico dei “bamboccianti”), per offrire una chiara idea di quale magnetismo abbia da sempre esercitato il “bel paese” sugli artisti d’oltralpe.
Meta obbligata per chiunque avesse voluto abbeverarsi alle fonti della cultura classica ed anche rinascimentale, l’Italia ha costituito fino a non molto tempo fa (e lo dovrebbe anche ora, se venisse maggiormente valorizzato il suo patrimonio storico-artistico e ambientale) una impareggiabile scuola di formazione tanto per gli artisti, quanto per i giovani rampolli dell’alta società europea.
Non stupisce, pertanto, che Edwin Hunzicker - pittore svizzero del cantone di Zurigo -, giunto in Sicilia nel 1922 dopo aver visitato canonicamente Firenze e Roma, sia rimasto a tal punto soggiogato dalle bellezze insulari da rimanere in Sicilia fino alla fine dei suoi giorni.
Fu Lipari, allora assolutamente incontaminata da fenomeni turistici di massa, la sua terra di elezione, il luogo deputato a stimolarne ideatività ed ispirazione. Il sole, il mare, gli splendidi litorali, ma anche le verdeggianti campagne dell’interno sono stati i suoi soggetti prediletti, col loro traboccare di luce e di colore in una sorta di inebriante epifania naturalistica. E tutto ciò - sia detto con chiarezza - ben al di fuori di ovvie e scontate tentazioni fotografiche e tardo veristiche, quali purtroppo ancora imperversavano in tanta pittura autoctona del tempo; ma piuttosto in una elaborazione lessicale di assoluta attualità, nella quale l’artista zurighese riversò le tante suggestioni mutuate dai contesti parigini e monacensi, allora vero cuore pulsante d’ogni ricerca artistica.
Non a caso, così scrive Anna Maria Ruta nel catalogo della mostra: “Lui ama soprattutto Matisse e Cezanne, ma anche i gialli di van Gogh e i rossi di Gauguin e nei primi anni di soggiorno isolano, gli influssi di questa pittura internazionale studiata in capitali come Monaco, Parigi o Roma sono evidenti: certa pennellata distesa, segmentata e insieme morbida e certe cromie matissiane, i rossi e i viola, inserti delicati tra i vivaci contrasti espunti da Gauguin e da van Gogh, si fronteggiano declinando squarci di natura, che rivelano le profonde radici pittoriche dell’immagine, lo studio dei colori e gli esercizi sullo spazio”.
Basta guardare “Marina Lunga di Lipari”, col suo improvviso e acceso rosseggiare d’un campo di fiori in primo piano, o ancora “Papaveri a Marina Lunga”, riproposizione dello stesso soggetto a distanza di quasi un ventennio, per cogliere le profondissime influenze esercitate su di lui dall’estetica dei “fauves”, e in particolare da Matisse. Un dato ancor più percepibile nel solipsistico “Ritratto di donna”, realizzato a Parigi nel 1930, ove il senso di ripiegamento e di chiusura psicologica del personaggio effigiato pare colto con forza non comune proprio in virtù di marcatissimi contrasti di colore.
La pennellata di Hunzicker è sempre fluida e sintetica, e ciò non di meno, pur nell’assoluta estraneità a derive calligrafiche e miniaturistiche, egli ha saputo come pochi rendere l’esprit dei paesaggi immortalati. Più e meglio di tanti siciliani, accanitisi fin troppo in esasperate e pretestuose estroflessioni coloristiche, Hunzicker è stato infatti in grado di cogliere gli aspetti emozionali insiti nella sua terra d’adozione, restituendoli agli osservatori con immediata comunicatività.
Una dote non comune, pressoché ignorata finché fu in vita (esponeva quasi esclusivamente nella natia Svizzera), cui adesso Lipari rende un omaggio sentito ma tardivo.
La mostra, visibile fino al 10 dicembre, è stata patrocinata dalla Provincia Regionale di Palermo.
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DIETER KOPP
(fino al 20 novembre)

Dire che Dieter Kopp - pittore tedesco itinerante per l’Italia - è rimasto catturato dalla luce e dai colori del Mediterraneo può sembrare un’ovvietà; tuttavia le opere esposte alla galleria Elle Arte non possono non confermare questo dato: ovvero che il paesaggio insulare continua ad essere, a tutt’oggi, una inesauribile fonte d’ispirazione per gli artisti provenienti dal nord-Europa.
Certo - e per fortuna - siamo ben lontani dalle suggestioni veristiche e fotografiche di tanta pittura sette-ottocentesca, prevalendo piuttosto una qualitativa e profonda empatia, in grado di coniugare congruamente i moti interiori con le più sottili vibrazioni psico-affettive insite nella natura isolana. Non a caso, nel catturare certi lucori atmosferici o le azzurrità marine ed aeree, Kopp pare risentire - seppure in termini appena accennati e percettibili - di quella sofferta sintesi di forma e di colore con la quale il sommo Munch ha impresso un segno indelebile nell’arte del secolo trascorso.
Il livido giallore di cielo e mare in “Tramonto a Sciacca”, l’avvolgersi di acque e pennellate in “Mare mosso”, e più in generale l’evidenza di intense sfumature psicologiche, palpitanti in ciascuna di queste opere, conferma ampiamente (e ciò a prescindere dalle tecniche adottate) quanto detto, offrendo un esempio di approccio alle beltà paesistiche siciliane al contempo più profondo e rarefatto, e comunque depurato di quel corteo di ovvietà formali e contenutistiche (del tipo “natura aspra e violenta”) del quale, francamente, non si avverte più il bisogno.
La mostra, visibile fino al 20 novembre, è stata patrocinata dalla Provincia Regionale di Palermo, e si avvale dei contributi di Bruno Caruso e di Stefano Malatesta.

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FRAMMENTI DI UN UNIVERSO
Adriana Lanza
(fino al 31 ottobre)

C’è un’atmosfera gozzaniana di crepuscolare intimismo borghese in queste opere di Adriana Lanza esposte fino al 31 ottobre alla galleria Elle Arte (visibili ogni giorno, tranne la domenica ed il lunedì mattina, dalle 10 alle 12,30 e dalle 17 alle 19,30).
Scorci di interni, di stanze intrise di luminosità calda e avvolgente, palpitanti di vita e di presenze, pur nell’apparente desolazione, come se una sedia di vimini o una morbida poltrona (forse citazioni di analoghi soggetti di van Gogh) o dei pavimenti maiolicati potessero mantener traccia di chi vi si è seduto o di chi li ha calpestati.
E ancora finestre, le cui terse vetrate paiono imbrigliare nelle loro trasparenze ogni guardo, segnando l’impalpabile limen fra il solare rigoglio dei giardini e gli accoglienti recessi casalinghi in cui introflettersi, ripiegati nella cinta e rassicurante quiete del proprio minimale hortus conclusus.
Il tutto reso con magistrali trapassi coloristici, frutto d’un uso del pastello riconducibile – non sembri una pleonastica forzatura – alla grande lezione di Degas o di Lautrec e capace d’una ambrata tessitura tonale dagli effetti trasognati e liquorosi.
Una narrazione, questa di Adriana Lanza, tutta orchestrata sul filo dei ricordi, in quel teatro della memoria di proustiana ascendenza in cui ogni oggetto, ogni particolare – la spalliera d’un letto, delle rose in un bicchiere, il ricamo d’una tovaglia – finisce con l’assumere, ad onta delle parvenze, significati assai profondi, in grado di evocare – per l’appunto come la “madeleine” di Proust – intense sensazioni ed emozioni. Un dato riscontrabile anche nella produzione ad olio, ove il predomino della natura morta, ora giocato su tonalità più fredde e meno avvolgenti e su impianti compositivi più scarni e totemizzanti (riferibili alla temperie novecentista più che a spunti impressionisti e post-impressionisti), nulla toglie al potere suggestivo delle immagini mnemoniche, al loro essere strumento prezioso e irrinunciabile nella costruzione della propria identità.
L’allestimento è accompagnato da un catalogo della Elledizioni con un testo critico di Gonzalo Alvarez Garcia.
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IN ARCADIA
personale di Aldo Pecoraino
(fino al 16 ottobre)

Fiammeggiano di bagliori coloristici gli alberi di Aldo Pecoraino.
Ora fluendo, ora rapprendendosi in grumi maculari, le intense cromie della sua incendiaria tavolozza danno corpo alle predilette icone: quegli alberi eletti a cifra inconfondibile del proprio fare artistico.
La ripetizione quasi ossessiva dei soggetti – portata avanti da diversi anni – nulla toglie alla vis ottica di queste immagini, perché Pecoraino ha l’indubbia abilità di esplorarne sempre nuovi aspetti, senza mai tediare l’osservatore e anzi irretendolo col gioco dei colori.
Poiché in arte, come in fisica, “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, si può ben dire che nella pittura di Pecoraino giunga a un ulteriore evoluzione quell’inevitabile confronto che gli artisti siciliani, da sempre, conducono con la natura della propria terra. Il presupposto naturalistico, riconducibile alle esperienze del verismo pittorico ottocentesco (e in particolare agli ulivi del Lojacono e del suo allievo Mirabella), si scioglie infatti, per uno spontaneo processo di viraggio espressionistico, in una sarabanda di accese cromie, tuttavia non meno “naturali” e “veritiere” delle morbide e fotografiche tonalità dell’ottocento.
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In questa “soggettivazione”, che pure non nega l’oggettività, operandone piuttosto la trasfigurazione, si ricompongono tradizione e modernità (perché l’irruenza di Pecoraino si ascrive alla modernità e mai alla post-modernità), secondo una linea evolutiva di carattere dialogico (più che dialettico) che non prevede strappi, ma continuità.
Così querce (i soggetti più ricorrenti), ma anche pini ed altre varietà arboree si susseguono in una iterazione ove ai colori, al loro vigoroso scandire le minute superfici, è affidato il compito primario di trasformare il dato percettivo in emotiva visione.
Non conta dunque, in questa ricerca-rappresentazione dell’Arcadia, alcuna fedeltà ottica a una immaginaria realtà naturale, idealisticamente elevata a descrizione del centro d’ogni armonia, quanto piuttosto la narrazione del contesto – tutto mentale – in cui l’emotività (e primariamente quella scaturente dal colloquio con la natura) trova degna e congrua estrinsecazione.
In questo senso, l’opera di Pecoraino mostra (e mantiene) una giovanile freschezza di encomiabile vitalità. A dimostrazione di come, finchè vi è ricerca ed esigenza di esprimere emozioni e sentimenti, vi è crescita individuale, umana e artistica.
La mostra, patrocinata dalla Provincia Regionale di Palermo e curata da Francesco Gallo, potrà essere vista fino al 15 ottobre, ogni giorno (tranne le domeniche) dalle 10 alle 12,30 e dalle 17 alle 19,30.
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PASCAL CATHERINE
“Il verde della foce (paesaggi di terra e di acque)”
(fino al 22 giugno)

En plein air “barbizonierre” e luminosità mediterranea, ben fusi e armonizzati, sono i dati salienti dell’ultima produzione paesaggistica di Pascal Catherine.
Superata la compassata “atarassia” che ne aveva permeato i precedenti dipinti - “vizio” che il nostro pittore attribuisce prevalentemente a fattori atmosferici e stagionali, responsabili d’una certa smorzata freddezza ottica -, il pittore d’origine normanna (ma da tempo trapiantato in Sicilia), pur mantenendo un impianto eminentemente fotografico, è finalmente riuscito ad insufflare nei suoi paesaggi una congrua dose di calore-colore, in grado di restituire la dolce asprezza della natura insulare. Ecco, allora, i morbidi declivi verdeggiare fra macule violacee di fiori (in “Sulla”) o inaridirsi (in “Contrada due aie”) in distese di stoppie appena interrotte da qualche ulivo o, ancora, stagliarsi (in “Santa Maria del Bosco”) col giallo delle messi e il verde boschivo su cristalline azzurrità atmosferiche.
Una tonalità - quella azzurra - che Catherine declina in tutte le sue potenzialità nelle svariate marine in esposizione (“Mare di Porto Palo”, “Coda della volpe, Sciacca”, “Mare agitato”), fuoriuscendo dai consueti contesti collinari ed approcciando tematiche e soggetti che rimandano alla tradizione paesaggistica insulare dell’ottocento.
Comunque la si pensi - ovvero che si apprezzi o meno la pittura facente leva sulla mimesi veristica -, Pascal Catherine dimostra di aver maturato un buon grado di empatia nei confronti della sua terra di adozione, stabilendo una simbiosi assai matura con l’ambiente naturale siciliano. Dato ben percepibile nelle nature morte (con limoni o fichi d’india), in cui la “mediterraneità” si esprime al suo meglio (ma senza scadere nel cliché bozzettistico) in virtù di cromie calde e solari. Il tutto a testimonianza d’un compiuto - e forse irreversibile - processo di “sicilianizzazione”, cui il normanno Catherine sembra essersi ormai del tutto abbandonato.
La mostra - visibile fino al 22 giugno, ogni giorno dalle 10 alle 12,30 e dalle 16,30 alle 19,30 - è stata curata da Laura Romano col contributo critico di Aldo Gerbino.
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ROSSANA FEUDO
“Tracce incancellabili della bellezza ”
(fino al 5 giugno)

Il bel viso androgino ruotato verso l’osservatore, quasi a coinvolgerlo, con lo sguardo ambiguo e misterioso, in un sottile gioco di seduzione. Come la “Fanciulla con la perla” di Vermeer, il personaggio ritratto in “Masquerade” da Rossana Feudo appare infatti avvolto da un arcano insondabile che lo eterna in una dimensione atemporale. Abbigliato secondo la moda olandese del ‘600 – seppur in maniera più vezzosa, senza il tipico rigore protestante –, con la gorgiera tratteggiata con fiamminga precisione, questa figura (in cui convergono, fondendosi, il maschile e il femminile) conferma il singolare talento dell’autrice, tecnicamente impeccabile nell’uso della tempera su tavola (rinnovando così un uso squisitamente rinascimentale) e profonda conoscitrice dell’arte di altri tempi.
La Feudo – le cui opere tornano ad essere esposte, a due anni di distanza, alla galleria Elle Arte – non è dunque, come qualcuno potrebbe erroneamente credere (alla luce della sua attività di restauratrice), semplicemente una pittrice animata da una filologica pulsione “antiquariale”; perché nei suoi dipinti la lezione dei grandi artisti del passato – benché studiata attentamente – è solo lo spunto di partenza per articolate e raffinate riflessioni condotte all’insegna d’un notevole spessore psicologico.
E’ l’ambiguità, infatti, la nota dominante dei suoi ritratti femminili. Siano essi di matrice tipicamente rinascimentale o di palese ascendenza simbolista (con una ostentata preferenza per i preraffaelliti), da essi promana sempre un fascino misterico e inquietante, tipico di chi racchiuda in sé l’angelico e il diabolico. Ecco allora la “Minerva di Thule” – dipinta di profilo e dotata di elmo e corazza come un condottiero verrocchiesco-leonardesco – emergere col suo eburneo candore dall’oscurità dello sfondo, con un sembiante incerto e sospeso fra mascolina marzialità e muliebre languore. Oppure il “Cherubino”, la cui ascetica dolcezza appare, qui e là, maliziosamente venata d’un languido abbandono, degno più d’un “erotino” classico (o manieristico) che d’una sacra immagine.
Ma è in dipinti quali “Apparizione” e, soprattutto, “Ragazza e rose”, che la pittrice romana raggiunge l’acme della sua raffinata tecnica e della non comune capacità di inquietare. Effigiate come divinità silvane – affioranti da un fitto e scuro fogliame – o come svenevoli fanciulle ottocentesche – in un profluvio di rose policrome –, le bellezze della Feudo suscitano immancabilmente una sorta di amor fati, incarnando alla perfezione il mito simbolista della donna angelicata che, sotto mentite spoglie, cela una mantide (o un vampiro) in grado di irretire e poi distruggere. Vengono alla mente le parole di Oscar Wilde: “Le donne perverse ci tormentano. Le donne buone ci annoiano. Ecco la differenza fra di esse”.
Una differenza che, però, Rossana Feudo è riuscita abilmente a mascherare.
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GIOVANNI SCHIFANI
“Memoria d'incanto”
(fino al 18 maggio)

GIOVANNI SCHIFANI Memoria d’incanto alla galleria Elle Arte fino al 18 maggio (ogni giorno, tranne la domenica ed il lunedì mattina, dalle 10 alle 12,30 e dalle 17 alle 19,30)

Giovanni Schifani è uno di quegli artisti siciliani realmente in grado di rappresentare come pochi la nostra isola. E ciò in virtù d’una vasta cultura figurativa – non a caso, nella sua lunga carriera, è stato direttore di vari istituti d’arte in Italia ed anche all’estero –, alla luce della quale egli ha saputo “ben temperare” la sua sicilitudo.
Basta guardare i suoi paesaggi – dai più remoti, come Contrada Pirato del ’60, ai più recenti, quali Alberi del 1982 – per avvertire come egli sia stato capace di far decantare adeguatamente le molte suggestioni provenienti dal passato e dal presente, aggirando sia le secche della tradizione paesaggistico-vedutistica di stampo ottocentesco, quanto certi squilli pseudo-innovativi di tanta pittura autoctona del secondo ‘900. In un’opera come Ilporto del ’58, per fare un esempio calzante, l’intensità cromatica – particolarmente percepibile nel vivace, ma armonioso contrasto fra la vasta azzurrità marina ed il biancore delle architetture, il nero delle chiglie, il rosseggiare dei tetti ed il verde della vegetazione in primo piano – si ricompone in un raffinato gioco di semplificate e scarne geometrie, con la figurazione depurata d’ogni inutile orpello fin quasi a sconfinare nell’astrazione di matrice razionalista.
Il dato formale – nelle opere di Schifani – è dunque sempre funzionale ad intenti di tipo meditativo, condotti mercè un uso emozionale del colore (spesso steso con tocchi quasi cezanniani) che trasfigura la “verità ottica” in uno sfrangiamento “affettivo” (ma mai banalmente passionale) di vibrazioni luministico-cromatiche.
Una vena intimistica che il pittore sviluppa assai bene nelle nature morte – tangibilissima nel morandiano Fiori su fondo azzurro del ’52 –, senza mai sconfinare, però, nella elegia malinconica o in pessimistiche “vanitas”; e ciò in grazia d’una tavolozza assai brillante, articolata – soprattutto nelle tele degli ultimi anni – in una ben orchestrata polifonia di tinte.
Ma è nella attività di incisore – nella quale ha sempre eccelso, riscuotendo non pochi premi – che l’inclinazione cogitativa raggiunge le vette più elevate. Lontano da ogni intento didascalico, Schifani ha operato ora infittendo il segno, ora diradandolo fin quasi alla rarefazione delle immagini. Il tutto con una secca penetranza dovuta alla binaria modulazione del bianco e nero. Spogliata dell’esuberanza del colore, l’opera di Schifani si riduce così all’essenza narrativa, facendosi aforisma destinato a riecheggiare.
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DOMENICO PURIFICATO
“Anima per sentire”
(fino al 27 aprile)

Domenico Purificato, ovvero la classicità. Se c’è un artista che - nel corso del ‘900 - ha ostinatamente perseguito un ideale classico, rimanendo estraneo a suggestioni astrattiste e a sperimentazioni più o meno avanguardistiche, quello è senza dubbio Purificato. E questo non solo per il linguaggio di stretta osservanza figurativa, ma soprattutto per il taglio narrativo permeato di delicata poeticità.
Non è un caso che Aldo Gerbino, nella presentazione (in catalogo) della mostra “Anima per sentire” (per l’appunto dedicata a Purificato e visibile alla galleria Elle Arte fino al 27 aprile), così scriva: “Ma su tutto (e su queste opere in particolare, che ritroviamo con una nativa emozione a diciotto anni dalla sua scomparsa avvenuta a Roma nel 1984; era nato a Fondi nel 1915), alita il pensiero di una idea classica, per quella compostezza, per quel rigore assorto, meditato e non stucchevole; e ancora proiettata, diremmo, verso una rinascenza disciolta, filtrata, sull’ovale malinconico dei volti femminili.”
Immagini muliebri, dunque, quelle dipinte o disegnate da Purificato, nelle quali anche un profano percepirebbe la profonda eco della pittura quattro-cinquecentesca. Come la “Ragazza col mazzolino” - che, nella postura complessiva e in particolare nella mano reggente i fiori, ricorda certi accenti verrocchiesco-leonardeschi - o come la “Ragazza con vestito verde” - la cui purità compositiva rimanda al rigore del Laurana o di Piero della Francesca -. Figure quasi sempre attraversate da un moto malinconico, dagli occhi velati di dolce tristezza, assorte in una elegiaca dimensione contemplativa.
Ed anche gli amati cavalli - soggetti ricorrenti in questa mostra -, soli o cavalcati da tiepoleschi Pulcinella, non hanno nulla della nevrilità equina riscontrabile - per esempio - in tanta pittura inglese, parendo piuttosto pervasi d’una riflessiva ed atarassica quiete (si guardino i “Due cavalli” splendidamente tratteggiati a china e tempera con piglio assai sintetico), più tipicamente umana, che animalesca.
Solo in una “Natura morta” (dipinta ad olio e risalente agli anni ’60), Purificato pare scostarsi dalla sua prediletta e olimpica armonia, per cedere ad una stesura pastosa e materica (reminiscenza delle suggestioni espressioniste degli anni ’40) che si fa carico, con la sua “vis” ottica, d’una emotività forte ed irruente. Unica eccezione, in un allestimento dominato da un lessico che - per dirla con Paola Sacerdoti - “nella semplicità e politezza” ha la sua elettiva “cifra espressiva, realistica e insieme misteriosa”.
La mostra è stata patrocinata dalla Provincia Regionale di Palermo.
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MARIO MIRABELLA Jr.
Luoghi della memoria
alla Galleria Elle Arte fino al 23 marzo

Il taglio è fotografico è un po’ “cartolinesco”. Ma il microcosmo cittadino raffigurato da Mario Mirabella jr. nei suoi piccoli dipinti - visibili alla galleria Elle Arte fino al 23 marzo, ogni giorno, tranne il lunedì mattina, dalle 10 alle 12,30 e dalle 17 alle 19,30 - costituisce, senz’ombra di dubbio, un atto d’amore nei confronti di Palermo.
Con una precisione miniaturistica egli ha infatti immortalato numerosi scorci della nostra città, come a volerli fissare a memoria imperitura. Dal “Mercato delle pulci” a “Piazza Bologni”, è tutto un susseguirsi di vedute - con una particolare attenzione per gli antichi mercati - che rivelano una perfetta padronanza delle tecniche (soprattutto l’acquarello) ed un’ampia cultura architettonica.
Inclinazioni - quelle vedutistica e paesaggistica - che Mario Mirabella jr. ha nel suo DNA, in quanto ideale prosecutore d’una tradizione familiare intrapresa dal nonno Mario Mirabella senior e continuata dal padre Sabatino e dallo zio Raimondo.
Si spiegano così i vari paesaggi agresti con ulivi - un topos del verismo palizziano del Lojacono, che Mario Mirabella senior, suo allievo, ripropose fin troppo lungamente -, come le marine (“Barche ad Isole delle Femmine”) e le numerose immagini di Erice (“Erice dal Balio”, “Cortile di Erice”) e di Castelbuono (“Vicolo di Castelbuono”, “Castello di Castelbuono”, “Cortile di Castelbuono”).
Un linguaggio - questo di Mario Mirabella junior - di assoluta classicità e di rassicurante gradevolezza, certamente assai poco innovativo, ma degno della massima attenzione per la sua tendenza a serbare la memoria storica (in senso artistico e naturalistico) d’una città e d’una regione sottoposte a continue trasformazioni da incurie ed aggressioni speculative d’ogni genere.
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NULLA DIES SINE LINEA personale di Gaetano Lo Manto
Sono per lo più delle “grisailles” i disegni di Gaetano Lo Manto esposti alla galleria Elle Arte.
Tanti piccoli gioielli grafici sapientemente tracciati in punta di matita, variegando l’articolazione dei grigi in una polifonia di sfumature tonali. Ben poche – in vero – le opere ravvivate dalle soffuse ed aeriformi policromie dei pastelli, quasi che il colore violasse la caliginosa poesia della stesura. E senza che ciò comporti – contrariamente a quanto si possa credere – alcuna eccessiva stringatezza visuale. Perché l’orchestrazione è d’una mirabile facondia, in grado di scandagliare tutte le potenzialità insite nelle tonalità brumose.
Così, in un susseguirsi di trapassi luministico-chiaroscurali e di conseguenti effetti di avvolgimento atmosferico, Lo Manto scandisce lo spazio delle minute superfici, delineando forme che vanno dalla figurazione più classica a derive di suggestione astratta.
Vasi di fiori, nature morte, cassettiere – soggetti ricorrenti nella sua produzione, allegorie di memorie artistiche ed esistenziali, con il loro ridondare d’oggetti traboccanti dai cassetti – e poi composizioni fantasiose (più o meno declinate in termini figurativi o astratti), talora affollate e dense di tratteggio, talaltra più spoglie e diradate, con i soggetti che si stagliano totemicamente sul biancore dello sfondo, in una iconica simbolicità non esente da influenze psicoanalitiche (si guardi il “pennino”, strumento principe del disegnatore, fallicamente eretto a rappresentazione dell’ego narcisistico maschile dell’artista).
Una sorta di diario intimo, questo di Lo Manto, fatto di segni – non a caso la mostra è titolata Nulla dies sine linea –, un raffinato dizionario del proprio lessico mnemonico, un compendio delle tante immagini sedimentate nel tempo – tutto mentale – d’un meditatissimo iter estetico, e, in definitiva, un doveroso tributo all’inconsunta efficacia del disegno quale sommesso, ma validissimo strumento di declamazione di rarefatte e minimali poetiche interiori.
La mostra – visibile fino al 2 febbraio, ogni giorno, tranne la domenica, dalle 10 alle 12,30 e dalle 16,30 alle 19,30 – è patrocinata dalla Provincia Regionale di Palermo e si avvale d’un catalogo della Elledizioni con un saggio di Aldo Gerbino.
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ANNA KENNEL  - Olii e disegni 1991-2001
L’elegante e misurata euritmia del segno pervade e domina ogni opera di Anna Kennel. E ciò non meravigli, vista la perizia con cui la pittrice palermitana padroneggia le diverse tecniche della grafica.
In un’epoca in cui il fare artistico spesso veste i mistificanti ed effimeri panni del puro gesto performativo, e nella quale l’approfondita conoscenza delle prassi operative – prima fra tutte, vasarianamente, quella del disegno – pare un optional, imbattersi in un’artista in grado di delineare forme e figure con una abilità da miniatori di antichi codici è cosa che suscita stupore e compiaciuta meraviglia.
Quasi fosse una fiamminga d’altri tempi, la Kennel tratteggia i suoi soggetti preferiti – conchiglie, foglie, rami, coralli, ma anche cuscini o sedie – con un gusto del dettaglio di mirabile nitore. E ciò, senza mai scadere in accanimenti decorativi, ma sempre mantenendo la sua acribia entro i limiti della spoglia sobrietà. Gli impianti compositivi delle sue nature morte sono generalmente improntati ad una contenuta essenzialità: qui una conchiglia si staglia sulle pieghe d’una stoffa (Ricordi di un viaggio), là è un cuscino decorato a dominare la scena (Abbandono). Le atmosfere sono ovattate e rarefatte, e a loro modo pregne di mistero, come bloccate in una trattenuta dimensione emozionale che non ammette né aggiunte, né sviluppi. Anche il colore – soprattutto nei dipinti –, per lo più steso con campiture assai compatte, pur nella vivacità dei toni – i rossi dei coralli o i verdi delle foglie –, si dispone secondo una metrica interiore e formale dalla ritmica precisa e cadenzata.
In tal modo Anna Kennel traduce in immagini quell’intima armonia evocata dalla natura, coinvolgendo nel suo mondo i riguardanti, chiamati a condividerne la scansione estetica. Un inno alle “naturales pulchritudines” che non passa – come troppo spesso accade – attraverso esplosioni di traboccante mediterraneità, ma piuttosto per la iconica, e un po’ totemica, analisi del particolare, in ottemperanza al principio della “parte per il tutto”. Così una conchiglia, nel caleidoscopio maculare del suo esterno, o un rametto di corallo, col suo intenso rosseggiare, o ancora una foglia verdeggiante divengono i simboli compiuti dell’ossequio rispettoso al mare ed alla flora.
Non è un caso che ella abbia eletto ad esaustivo simbolo della sua antologica – visibile al Loggiato di san Bartolomeo fino al 3 febbraio, ogni giorno, tranne il lunedì, dalle 10 alle 19 – una palma (Dittico), quasi ad emblematizzare con una visione dalla ieratica incombenza il deferente colloquio da lei intessuto con la biosfera. E non è un caso – parimenti – che non si ravvisi alcuna presenza umana – se non come fuggevole riflesso in Ombre sui vetri del loggiato o quale arcano nudo femminile velazquezianamente ritratto di spalle e disteso –, a voler ribadire l’impossibilità per gli uomini di essere altro che muti e soggiogati spettatori.
L’adozione di un linguaggio figurativo d’assolutà classicità, seppur venato di ricercata rarefazione di vago sapore metafisico, si rivela assai funzionale alla espressione di tali poetiche, tutte incentrate sul disvelamento dell’incanto celato nei frammenti d’una natura troppo spesso ignorata o violata. A conferma dell’indiscussa attualità d’un lessico ancora esaustivo, quando padroneggiato con tanta raffinata semanticità.
La mostra, organizzata dalla Provincia Regionale di Palermo, si avvale d’un catalogo curato da Laura Romano della galleria Elle Arte (ElleEdizioni) con contributi critici di Elio Mercuri, Paolo Nifosì ed Antonina Zaru.
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COLLETTIVA ELLE ARTE
Tutta incentrata su una pittura di stampo squisitamente figurativo, la collettiva allestita alla galleria Elle Arte – visibile fino al 17 gennaio, ogni giorno, tranne la domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 16,30 alle 19,30 – propone una articolata offerta di dipinti di elevata qualità.
Artisti quali Bruno Caruso o Pedro Cano costituiscono infatti degli indiscussi punti di riferimento nel panorama della migliore figurazione contemporanea.
Dell’uno – più noto soprattutto per la valenza della produzione grafica – è possibile ammirare una serie una serie di oli su tela (di forte impianto segnico) con le ormai “classiche” nature morte con cesti di frutta, dell’altro, invece, si possono apprezzare gouaches ed incisioni raffiguranti monumentali scorci romani immersi in atmosfere rarefatte e misteriche.
Non mancano – come d’uopo – svariati omaggi alla tradizione paesaggistica insulare, talora declinati in termini terrei e corposi, come nelle tele di Ada Loffredo, talaltra con modalità più fresche e meditate, come nei leggiadri dipinti di Pascale Catherine in cui si alternano le verdi plaghe normanne con quelle siciliane.
Ampio spazio anche per il vedutismo miniaturistico e descrittivo di Mario Mirabella jr. (nipote del più noto Mario Mirabella sen. e figlio di Sabatino), capace di rendere con gusto fotografico svariati scenari del centro storico palermitano. Un allestimento – nel suo insieme – in cui la finezza del segno grafico appare prioritaria, come dimostrano le levigate e conturbanti figure muliebri di Rossana Feudo, dipinte a tempera e rievocanti atmosfere preraffaellite, o le tele di Anna Kennel, con la loro inclinazione botanica espressa con non comune nitore di tratteggio, o, ancora, le opere di Bice Triolo, improntate ad un palpabile graffitismo e ravvivate da una orchestrazione di cromie quasi psichedeliche.
Completano l’esposizione le irretenti “visioni” di Guevara – degli autentici miraggi di gusto “sahariano”, evocati in un turbine di incandescenze coloristiche – e le ieratiche “oranti” di Terruso – la cui materica corposità cromatica contraddice alquanto la eleganza grafica delle altre opere, ma si rivela assai atta a rappresentare la mediterranea sanguignità dei siciliani –.
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NAIRE FEO "Orizzonti" dal 6 al 15 dicembre alla galleria Elle Arte di via Ricasoli 45 - Palermo
Pervasi di profonda spiritualità - il che non implica necessariamente alcun afflato religioso -, i dipinti di Naire Feo (visibili fino al 15 dicembre alla galleria Elle Arte) esprimono un approccio alla natura di tipo sensitivo, più che sensoriale. Estranee ad ogni intento di virtuosistica mimesi formale (e quindi assai lontane, una tantum, dalla tradizione insulare ottocentesca), queste pitture sgorgano piuttosto dall’intimo colloquio che l’artista intrattiene col paesaggio, così trasfigurato in lirica visione. L’adozione di orizzonti ribassati (sui quali incombono estese azzurrità aeree in cui disperdere lo sguardo) ed una stesura tonale dei colori - come in “Quasi sereno”, nel quale il blu dei rilievi in primo piano si stempera progressivamente in quelli retrostanti, fino all’etereo celeste del cielo sullo sfondo - contribuiscono alla definizione d’una dimensione contemplativa, da estasi serena, che rapisce il riguardante e lo strania dal presente. Così, confinate in un tempo assoluto che non compendia eventi contingenti, né ammette presenze umane, queste tele evocano armonie assolute e primigenie, fatte di silenzi e sperdimenti, ispiratrici di introspettive meditazioni tanto nell’artista, quanto negli osservatori. Nel crescente rarefarsi delle forme - fin quasi alla dissoluzione astratta -, prediletto ultimamente dalla Feo, sembra affiorare la volontà di superamento d’un consolidato schema estetico-linguistico e il desiderio - forse inconscio - di rompere un ordine esteriore, per esprimere inquietudini profonde ed irrisolte. La pennellata si fa pastosa e, a tratti, quasi materica, la cromia predomina decisa e i volumi si stemperano fino a sciogliersi - si guardi “Fluidità” - in bande coloristiche. Un ritorno ad una originaria immediatezza espressiva, una sorta di azzeramento della pittura, che, si spera, costituisca una semplice pausa catartica, prima di più nuove e più decise ripartenze. La mostra, patrocinata dalla Provincia Regionale di Palermo, potrà essere vista giornalmente dalle 10 alle 13 e dalle 16,30 alle 19,30.
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