AVANGUARDIE RUSSE
(fino al 20 marzo 2012)
 
<<…Le avanguardie sono un fenomeno tipico dei paesi culturalmente arretrati; il loro sforzo, benché intenzionalmente rivoluzionario, si riduce generalmente a estremismo polemico…>>.
Valutazione quanto mai congrua e pertinente, questa formulata da Giulio Carlo Argan, in quanto in grado di inquadrare a perfezione il contesto storico (più precisamente economico, sociale e culturale) al cui interno sono maturate e si sono inscritte tutte le pulsioni catartiche e palingenetiche dei tanti che, da almeno centocinquant’anni, hanno mirato a rivoluzionare non solo le dinamiche (o meglio ancora le inerzie) delle arti visuali, ma – più in generale – qualsiasi forma di ordine precostituito in atto e vigente nell’intero orbe terraqueo.
Va detto – a onor del vero – che l’interessante analisi di Argan è stata elaborata in riferimento al solo Futurismo italiano, rivelando un così radicato pregiudizio ideologico (da comunista militante che valuti un fenomeno ascrivibile al nazionalismo e al fascismo), tale da limitarne quell’assolutezza paradigmatica che ne consentirebbe – invece – una più lata (e logica) estensibilità ad altri fenomeni coevi.  
Non è un caso, per tanto, che proprio in relazione all’avanguardia russa (le cui varie correnti molto devono al suddetto Futurismo ed al Cubismo, intrecciandosi però assai strettamente con gli eventi insurrezionali bolscevichi) egli abbia parlato di <<…sola che si inserisca in un concreto processo rivoluzionario e ponga come politica la funzione sociale dell’arte…>>, a inequivocabile dimostrazione di come la lettura dei fenomeni culturali – in special modo artistici – del cosiddetto “secolo breve” abbia risentito – e risenta ancor oggi – di rigorosi schematismi il cui tasso di interferenza risulta fin troppo rilevante ed oneroso.
E’ da questi fondamentali presupposti, dunque, che bisogna muovere nel prendere visione della mostra Avanguardie Russe (allestita al Reale Albergo dei Poveri di Palermo fino al 20 marzo), e cioè cercando di sfruttare la stimolante occasione per un tentativo di emancipazione – nei limiti del possibile – da “griglie” interpretative di matrice storico-artistica fin troppo “cogenti” ed “orientanti”, ed approfittando di questa ampia panoramica per operare delle valutazioni di carattere artistico ed estetico che siano – nei limiti del rispetto della contestualizzazione storica – almeno parzialmente immuni da partigianerie ideologiche.
E’ fuor di dubbio – e la mostra ne dà ampiamente atto – che senza l’irruzione del verbo cezanniano, di quello matissiano e cubo-futurista nello scenario della Russia dello Zar – e questo ci riporta ancora alla riflessione sul provincialismo, e quindi sulle condizioni “presunte” o “effettive”  di retroguardia e arretratezza, quale premessa ineludibile di qualsivoglia slancio avanguardista –, con molta probabilità, assai difficilmente si sarebbe assistito al fiorire d’un movimentismo “russofono” (dal Raggismo al Suprematismo e al Costruttivismo) nei termini e nei modi in cui esso venne a svilupparsi, ovvero privilegiando – nelle sue espressioni più radicali – l’adesione quasi incondizionata ad una koinè linguistica sopranazionale e relegando gli aspetti della tradizione in ambiti estremamente ridotti e contenuti. In tal senso, il ruolo giocato dalle opere d’arte contemporanea importate nel territorio russo da collezionisti – indubbiamente illuminati – come Scukin e Morozov (che facevano, per così dire, “compere” nella “ville lumière”) e anche l’istrionica peregrinazione in quelle terre dell’immancabile Marinetti (innanzitutto propagandista e promotore, attraverso il Futurismo, di se stesso) si rivelarono senza dubbio determinanti ai fini dell’innesto, in un terreno già fertile e magmatico, di difformi paradigmi rispetto ad una consolidata tradizione figurativa (per altro già ricca, al volger dello ‘800, di interessanti analisi sociali e prese di posizione di carattere politico) e ad orientamenti tematici marcatamente autoctoni.
Proprio le opere esposte all’Albergo dei Poveri consentono di verificare fondatamente – se si adotta quel giusto distacco “intellettuale” dalle romanticherie e dagli armamentari ideologici cui si è già alluso all’incipit di questo discorso – come il prevalere di pur legittime impellenze ed esigenze di inclusione in innovativi movimenti di pensiero estetico ed artistico provenienti dall’esterno abbia tuttavia determinato, laddove hanno prevalso l’eccessivo zelo dei neofiti e la scrupolosa ortodossia degli iniziati, degli esiti di tipo rigidamente e marcatamente “castratori”, rispetto a quelle componenti di inventiva e spontaneità che abitualmente si pascono di spunti e suggestioni mutuati dall’inevitabile retroterra di matrice etno-antropologica.
Fatti salvi, infatti, alcuni indiscutibili raggiungimenti della cultura visuale russa di quelle epoche – il Suprematismo di Malevic, con la sua palese capacità di giungere all’essenza del linguaggio astrattista-geometrico e di mettere a nudo i limiti estremi oltre i quali si dissolve il valore semantico delle immagini, e ancora l’apporto di Kandinskij alla nascita dell’Espressionismo astratto, in virtù d’una impareggiabile attitudine a bilanciare la dissoluzione della forma, la liberazione del gesto e l’intensità emozionale ed affettiva del colore, e infine la visionarietà utopistica del Costruttivismo di Tatlin, in cui si concretizza formalmente l’aspirazione anche delirante ad azzerare il tutto per fare ripartire la “Storia” attraverso una complessiva ricostruzione estetica e politica della società –, molta della produzione visiva di allora – improntata ad una esibita volontà di infrazione d’ogni norma convenuta – può oggi apparire piuttosto ingenua (come è tipico d’altronde d’ogni slancio idealistico e pulsione passionale) e in qualche caso anche alquanto imbarazzante. Certe opere della Rozanova (le varie Carte da gioco), altre della Goncarova (Orchidee, Decorazione elettrica), l’ossequio al cubo-futurismo variamente declinato dalla Popova (Natura morta), dalla Udaltsova (La chitarra. La fuga), daVasil’evic Le-Dantu (Signora in un caffè), da Menkov (Sinfonia. Violino), dalla Pestel (Composizione), e ancora certe soluzioni a metà fra astrazione geometrica e dinamismo futurista sempre della Popova (Costruzione di forza nello spazio) si configurano, infatti, come manifestazioni visuali ove l’adesione entusiastica ad indicazioni di provenienza internazionale ha finito con l’indurre effetti “imitativi” assai poco personalizzanti e sostanzialmente riconducibili ad una koinè linguistica dai connotati altamente ripetitivi. Altro discorso, invece, va obbligatoriamente formulato per tutte quelle opere nelle quali il carattere profondo e inconfondibile della cultura russa – lo spiritualismo misticheggiante, l’afflato favolistico, il radicamento nel mondo contadino – appare ben amalgamato con i suggerimenti provenienti dal milieu occidentale, in un “mélange” contraddistinto dall’effettiva capacità di sfruttare le spinte innovative per rivitalizzare una tradizione altrimenti destinata a sclerotizzarsi in moduli estremamente conformistici e convenzionali (così come sarebbe accaduto di lì a poco con l’imporsi del “realismo socialista” di dettame staliniano). Ecco, allora, le tante declinazioni in salsa russa del verbo cezanniano ammantarsi di atmosfere sospese e melancoliche, conferendo alla ritrattistica un carattere intimistico estremamente peculiare (Nudo con tappeto asiatico sullo sfondo di Kuprin, Ritratto femminile di Falk, Ritratto di donna con chitarra di Lentulov o Ritratto di poeta di Maskov), a dimostrazione di come  lo squillo coloristico e le stesure piatte e assai sintetiche possano sposarsi a perfezione con una dote d’empatia ed un’attitudine allo scavo psicologico di derivazione del tutto territoriale (si pensi alla letteratura coeva e precedente, Dostoèvskij sopra tutti), senza che ciò comporti tuttavia arrendevolezze o cedimenti a semplificazioni assai banali e fin troppo modaiole. Analoghe considerazioni per le varie nature morte – da quelle della Rozanova e di Kuprin a quelle di Koncaloskij, di Rozdestvenskij e di Menskov – nelle quali le varie innovazioni matissiane e cezanniane si fondono compiutamente con una vivacità fanciullesca che è tipica dello esprit locale.
Ma è soprattutto nella pittura di Chagall – qui in vero rappresentata nelle sue forme più prodromiche, non ancora pervenute al proprio acme visionario –, in cui il retaggio del mondo ebraico si esprime in termini di palese radicamento nell’immaginario della Russia più profonda (come in Bagno di bimbo o Negozio a Vitebsk), che gli aspetti della narrazione fiabesca raggiungono dei vertici assolutamente incommensurabili, conferendo all’arte russa del primo Novecento un carattere del tutto autonomo e qualitativamente peculiare. Si spiegano così le atmosfere alla Sherazade che permeano il paesaggismo e il vedutismo di Lentulov (Paesaggio. Chiese.Nuova Gerusalemme e Antico Castello in Crimea. Alupka) o quelli di Kuprin (Paesaggio con chiesa) e per certi versi anche quelli spettacolari, vorticosi e caleidoscopici del Kandinskij ancora in itinere verso l’astrattismo più libero e informale (Mosca. Piazza rossa). Simili riflessioni vanno condotte anche per le rivisitazioni dei temi contadini e per i ripensamenti della pittura sociale di fine ‘800 variamente effettuati in una aggiornata veste d’avanguardia. E’ il caso delle ipercromiche dissertazioni della Goncarova (Donne con rastrello) e di Larionov (Rissa in un locale), nelle quali la sintesi figurativa e l’accensione coloristica si fanno funzionali vessillifere d’una profonda pregnanza narrativa; ma è massimamente nel paradigmatico ed esemplare apporto – ancora una volta – di Malevic (Il falciatore) che quanto fin qui detto giunge ad una evidenza del tutto inoppugnabile: ovvero ad una summa compiuta di quella attitudine, tipica dei grandi artisti, ad innestare nei terreni del vissuto individuale e del personale immaginario le migliori suggestioni e i più vitali spunti provenienti dall’esterno – estrema sintesi formale, accensione coloristica, stesura  caratteristicamente piatta –, dando infine corpo ad esiti linguistici totalmente inattesi, che però, nella loro radicale innovazione, giammai rinnegano né tanto meno cancellano il peso e il valore d’una grande tradizione.

Salvo Ferlito

 

 

 

ANNI  PRECEDENTI

 
 
 
 
LA RICERCA DELL’IDENTITA’
Fornire una definizione valida e compiuta di cosa sia l’identità è compito assai arduo. Frutto d’un intreccio inestricabile di fattori psicologici, sociali e antropologici, essa appare infatti irriducibile a qualsiasi modello ideale o formula precisa.
Senza andare a scomodare la filosofia, la religione o la psicoanalisi, e volendo permanere nel novero delle arti visive (che pure dalle suddette sono state ampiamente influenzate), si può ben affermare che proprio alla pittura, alla scultura ed alle più recenti fotografia, cinematografia e videoarte si devono le più riuscite rappresentazioni dell’identità elaborate nel corso dei millenni.
Lo dimostra, con inoppugnabile chiarezza, la monumentale mostra curata da Vittorio Sgarbi – “La ricerca dell’identità” da Antonello a de Chirico, visibile all’Albergo delle Povere fino al 17 febbraio –, non per nulla incentrata sulla ritrattistica, chiamata qui a narrare l’evolversi, negli ultimi cinquecent’anni, del modo di raffigurare l’immagine dell’io, colto nei suoi aspetti più intimistici e sociali.
Non è un caso, quindi, che il percorso espositivo parta proprio col “Ritratto di ignoto marinaio” di Antonello da Messina; non è un caso, perché questo dipinto – in cui si sposano il crudo gusto realistico per il particolare di ascendenza fiamminga con le acquisizioni prospettiche e la maggiore morbidezza della pittura italiana – è un vero manifesto delle possibilità di scavo psicologico insite nella grande ritrattistica. Infatti, quest’uomo sconosciuto, che guarda in tralice verso gli osservatori con occhi furbi e penetranti, dal sorriso accennato e sfuggente, è forse la migliore (e più riuscita) descrizione dell’identità insulare, ovvero di quella “metis” – un po’ luogo comune e un po’ carattere reale – che fa dei siciliani un popolo al contempo assai amato e disprezzato.
Le certezze e le fierezze di quest’uomo antonelliano – esempio della centralità assegnata dal Rinascimento all’uomo naturale e sociale – paiono però progressivamente cedere e iniziare a sgretolarsi già a partire dal primo ‘500. Da quel momento in poi – come rivelano il ritratto dell’Aretino dipinto da Tiziano, il giovane languoroso di mano del Giorgione e gli introversi personaggi di Lorenzo Lotto –, una profonda vena di maliconia  sembra via via insinuarsi nei volti e nelle pose, aprendo a quella crisi dell’identità (individuale e collettiva) che culminerà con le nevrosi del ‘900 e con la franca alienazione della contemporaneità.
Nobili, prelati, santi, pitocchi, borghesi, contadini e studiosi, donne estatiche (come l’orgasmica “Santa Teresa” del Morazzone, corrispettivo pittorico di quella berniniana), assorte (la “Santina Negri” di Pellizza da Volpedo), deliranti (l’intensissima “Ofelia” del Rapisardi) o vampiresche (quelle dipinte da Lorenzo Viani con tratto quasi espressionistico), teschi più o meno decomposti (del Ligozzi), mostri e freaks d’ogni tipo (dalla “Cieca” del Carracci al caricaturale busto in cera di Vittoria di Savoia realizzato da Francesco Orso), fantasmi e figure evanescenti si susseguono in una ideale galleria di tipi e di profili socio-psicologici, in grado di declinare la tematica di fondo con uno spettro assai ampio e variegato, ma di certo non completo. 
Oltre ad Antonello, infatti, non compare alcun altro pittore del ‘400, e questa, ai fini d’una visuale più allargata, costituisce una pecca non da poco. Inoltre, non v’è traccia dell’impronta di Leonardo, i cui studi fisiognomici hanno condizionato in modo irrevocabile l’espressione degli “affetti” da parte dei pittori successivi. Manca del tutto la ritrattistica ufficiale manierista di tipo bronzinesco, e quindi quella smaltata modalità di rappresentazione del rango alla quale fu sottratto ogni slancio emozionale. Latitante anche l’Arcimboldo (sarebbe bastato qualche suo epigono o copista), che fu artefice di quella spiazzante coesistenza di unico e molteplice in grado di frammentare formalmente una stessa identità. Altrettanto lacunosa, la trattazione del tema dell’assenza e dell’annullamento, la quale avrebbe meritato una qualche anticipazione seicentesca (per esempio, con una natura morta con strumenti musicali del Baschenis, emblematica della “fine del concerto” e quindi del termine dell’esistenza) e non solo il confinamento (seppur di grande valore artistico, con i vuoti ambienti di Sironi, Ar e Ferroni) nell’ambito del secolo trascorso. Infine, la stessa contemporaneità appare scandagliata parzialmente, senza alcuna considerazione per tecniche e linguaggi più attuali (fotografia, videoarte, per fare qualche esempio).
Pur rifuggendo da presunti criteri di “scientificità” – inesistenti in campo umanistico, checchè ne pensi qualche “convinto” addetto ai lavori di accademica estrazione –, rimane il fatto incontestabile che una mostra così importante, soprattutto se organizzata con soldi pubblici, non possa essere lasciata ai semplici e soli “gusti” del curatore (motivazione che puzza tanto di excusatio non petita), imponendo delle scelte un po’ più rigorose.
L’inoppugnabile bellezza ed importanza di molte delle opere in esposizione (selezionate, per altro, con un occhio attento agli artisti siciliani) non basta del tutto a giustificare un evento che pare improntato a prevalenti dinamiche e finalità di tipo mediatico: dalla notorietà televisiva del curatore alla conseguente visibilità e risonanza della mostra stessa (e di chi la ha voluta).
Come già detto in precedenti occasioni, in riferimento all’operato di altre amministrazioni (guidate sia da politici di destra che di sinistra), la nostra città e la regione intera necessitano di interventi artistico-culturali non effimeri ma strutturali.
Impiegare il denaro della collettività per dare un assetto definitivo ai musei isolani (e soprattutto palermitani), recuperando quanto nascosto nei depositi (con cui si potrebbero allestire non poche mostre di qualità), e trasformare i centri storici in stabili spazi espositivi per opere di artisti contemporanei, ci sembrano – francamente – più impellenti priorità.

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